Stella Bottai (SB): Nel suo ruolo al Parco Archeologico Pompei si occupa non solo di restauro ma anche di conservazione. Potrebbe descrivere la relazione che intercorre tra questi due ambiti di intervento, e come essi si connettono agli interventi di manutenzione?
Francesca Leolini (FL): La mia qualifica è quella di “funzionario restauratore conservatore”: siamo nove in organico al Parco Archeologico di Pompei con la stessa qualifica e copriamo quasi tutte le classi di restauro previste dal Ministero, e comunque tutte quelle necessarie a Pompei. La manutenzione del sito è svolta invece dai professionisti A.L.E.S., operai, restauratori e addetti alla fruizione che si occupano quotidianamente di numerosi interventi riguardanti sia le opere che le strutture che ne fanno parte (come le gronde e i cancelli), insieme al controllo e alla modulazione dell’impatto antropico sul sito.
La conservazione è una parte integrante del restauro che si applica dopo aver restaurato un oggetto, per preservarlo nel corso del tempo, funzionale al suo accompagnamento all’esterno dei depositi e alla sua esposizione museale, ma viene attuata anche quando l’oggetto è nei depositi in cui esso viene custodito. Conservare significa prendersi cura di un oggetto, con azioni dirette di depulverazione e monitoraggio dei parametri termoigrometrici, ma anche fornendo indicazioni di natura pratica, per esempio, relative all’imballaggio nel caso di un suo spostamento (solo il funzionario restauratore e conservatore conosce quali sano i punti critici di un manufatto). Mentre la conservazione è quindi un’azione indiretta che induce per lo più modifiche ambientali, il restauro è invece l’azione diretta compiuta sull’oggetto che induce modifiche sulla sua stessa materia.
SB: Come definirebbe la “materia archeologica” dal punto di vista del suo restauro e della sua conservazione?
FL: La materia di un’opera d’arte, in particolare quella archeologica, è per sua natura in evoluzione poiché il suo stato chimico-fisico è quello di ricercare continuamente l’equilibrio con l’ambiente in cui si trova. Se parliamo di una rovina archeologica, e nel caso specifico di quelle pompeiane, queste rovine sono state obliterate per migliaia di anni, essendo state sepolte da lapilli, cinerite e terra; erano effettivamente sotto-terra, e dunque soggette a percolazioni di acqua, dilavamento, attacchi batteriologici e azioni meccaniche dovute a radici di piante superiori, assorbimento di sali, fenomeni di slittamento del terreno. Una volta portate in superficie e alla luce, esse sono esposte a sbalzi termoigrometrici repentini causati da irraggiamento solare, fenomeni di particellato atmosferico erosivo indotti dal vento, piogge meteoriche, eventi atmosferici e antropici in generale. Molte zone a Pompei sono state distrutte dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale nel 1943, per esempio. L’azione antropica del turista, tuttavia, è persino quotidiana. Il nostro lavoro di conservatori si identifica con il monitoraggio costante rispetto a questi eventi che agiscono sia sulle superfici decorate delle architetture esterne, sia sui reperti organici e inorganici custoditi nei depositi. Il lavoro di restauro diventa necessario nel momento in cui la loro materia abbia bisogno di essere risarcita ai fini della sua stabilità, di una migliore leggibilità e comprensione, di una fruizione più sicura. Per altro, citando lo storico del restauro Cesare Brandi, “si restaura solo la materia dell’opera d’arte”.
SB: La sua specializzazione è relativa al settore dei materiali organici, ceramici, vitrei e metallici e lo scorso anno si è occupata, presso il Laboratorio Restauro Oggetti del Parco, del restauro di un reperto da poco riscoperto, il cosiddetto “Tesoro della fattucchiera”. Potrebbe raccontarci come si svolge il suo lavoro nella fase che intercorre fra la scoperta di un oggetto e il suo arrivo al Laboratorio?
FL: Gli oggetti di scavo riscoperti nel Parco Archeologico di Pompei arrivano al Laboratorio dopo che gli archeologi ne hanno rimosso le parti di terreno incoerente e ne hanno eseguito una prima analisi. E’ un lavoro che si svolge in sinergia tra le conoscenze dell’archeologo e quelle del restauratore conservatore, che si occupa innanzitutto di studiare il reperto. Infatti il secondo passaggio previsto dal restauro, dopo la documentazione fotografica, è proprio la ricerca storica e iconografica condotta con gli archeologi. Innanzitutto è fondamentale sapere dall’archeologo presente sullo scavo le condizioni in cui è stato ritrovato l’oggetto, se il terreno era umido o secco, se vi erano radici intorno o nei pressi, se era collocato in un ambiente interno o esterno. Insieme ricostruiamo la storia del manufatto: più dati riceviamo e confrontiamo, più completo potrà essere anche il progetto di restauro. Il restauro che operiamo all’interno del Laboratorio è quello indirizzato al “minimo intervento”: ciò rappresenta e mette in atto la nostra stessa formazione universitaria, che integra l’azione del restauro con l’applicazione di indagini diagnostiche finalizzate all’individuazione del materiale più compatibile, facilmente reversibile e mai nocivo non solo per l’oggetto ma neanche per il restauratore (nel nostro Laboratorio, per esempio, non troverete prodotti quali il benzotriazolo), oltre che, nel caso, all’introduzione di innovazioni operative o all’adeguamento delle apparecchiature e attrezzature utilizzate. Di fatto l’oggetto che noi restauriamo non “muta”, in quanto facciamo solo in modo che recuperi, almeno in parte, la sua “immagine”, che ormai non è più quella che aveva quando è stato creato, ma reca in sé le vicissitudini che l’oggetto ha dovuto affrontare- Un’immagine che conserva una tanto preziosa quanto avventurosa “patina del tempo”. Non sentirete certo mai parlare di oggetti da noi “riportati al loro antico splendore”… i tempi di Eugène Viollet-le-Duc, della reinvenzione, del “revival” non sono più quelli dell’archeologia contemporanea in cui, come dicevo prima, le riflessioni di Brandi sono diventate imprescindibili nella letteratura, nell’insegnamento e nell’applicazione del restauro. Come è accaduto anche nel restauro del “Tesoro”.
SB: Quali sono stati gli oggetti relativi a questa scoperta che l’anno più appassionata dal punto di vista del loro restauro?
FL: Il “Tesoro della fattucchiera” rinvenuto nella Domus del giardino è costituito da vaghi di collana, simboli apotropaici e oggetti da toeletta, realizzati nei materiali più disparati: conchiglia, vetro, faience, ambra, osso, pietre dure, bronzo. Tra questi, mi hanno colpita in particolare un talismano in ambra e un prezioso sigillo in pasta vitrea. L’ambra è una resina fossile di aspetto vetroso che deriva da antiche conifere ormai estinte, la principale delle quali era la specie nota come Pinus succinifera.
Sin dall’antichità vigeva tra gli uomini d’ingegno una grande confusione riguardo alla natura e alle caratteristiche di questo materiale, al punto che furono formulate numerose teorie spesso discordanti tra loro, ed alcune davvero bizzarre. É annoverata tra le pietre preziose pur essendo un materiale organico e non di origine minerale. Sappiamo per certo che al tempo di Plinio esistevano da secoli rotte commerciali consolidate (la cosiddetta “Via dell’Ambra”) che distribuivano l’ambra estratta dal Baltico per tutta Europa, dall’Ungheria all’Italia meridionale. Plinio aveva individuato la natura dell’ambra e al capitolo XXXVII della Naturalis Historia (46-50) ci dice che:
“L’ambra deriva dal midollo che defluisce da particolari specie di pino alla stregua della gomma che deriva dai ciliegi o come la resina che trabocca dai pini a causa della copiosità della linfa. Essa si condensa per il freddo, per effetto di certe condizioni climatiche o per via del mare, quando l’impetuoso riflusso delle onde la trasporta lontano dalle isole, la deposita certamente lungo le spiagge in modo così rapido che essa pare rimanere sospesa piuttosto che andare a fondo.” Ci dice anche che ne esistono vari tipi e che “La variante di massimo pregio è quella di Falerno, così chiamata per il colore del vino, della quale si ammira la chiarezza del suo leggero fulgore e la dolce coloritura del miele cotto. “
Queste misteriose caratteristiche, come la capacità magnetica e il colore dorato, indussero gli antichi ad attribuirle proprietà magiche, apotropaiche e mediche. In virtù di ciò, essa veniva infatti utilizzata come rimedio contro il mal d’orecchi, l’oscuramento della vista, il mal di stomaco, l’influenza intestinale e le perdite di sangue. Delle infezioni alla gola ne parla ancora Plinio (Nat. Hist., XXXVII, 44). Il successo di questo materiale nell’antichità è senza dubbio dovuto, oltre che alle sue origini misteriose, anche al fatto che l’ambra è un materiale morbido, facile da lavorare e quindi ideale per la creazione di vaghi di collana e talismani. Può essere tagliata e lavorata con strumenti di qualunque materiale osseo oppure litico. Oggi sappiamo che le ambre sono resine fossili che datano dal primo Cretaceo (135-65 milioni di anni) al Miocene (26-7 milioni di anni), rinvenute in numerosi luoghi, anche se le maggiori fonti europee sono le spiagge del Mar Baltico. Tramite analisi chimiche (di solito è usata la spettroscopia IR), si possono leggere differenze nella composizione chimica tra le ambre, il che permette di definirne la provenienza. (quella della “fattucchiera” non è ancora stata indagata). L’ambra si degrada per il legarsi dell’ossigeno ai doppi legami dei gruppi metilenici eterociclici, subisce cioè un fenomeno di deterioramento che chiamiamo “ossidazione”. Questa alterazione può portare a due tipologie di cambiamenti fisici: una superficie microfessurata, che conduce alla formazione di zone che diventano deboli e suscettibili di distacco, e una superficie polverulenta, anch’essa passibile di indebolimento e perdita di materiale costitutivo. Il nostro talismano, configurato a spiga di grano (o orzo), rinvenuto nello scavo già separato in due pezzi, nella stessa area dell’ambiente 4 e stesso livello, è particolarmente interessante poiché presenta un degrado diversificato: una metà infatti si mostrava ossidata, arida e pulverulenta, mentre l’altra era in ottime condizioni conservative. Dal punto di vista del restauro abbiamo dunque avuto un approccio selettivo. Sulla parte ossidata abbiamo utilizzato una microemulsione acrilica, stesa a più riprese, verificando via via il consolidamento in atto e ripetendo l’operazione finché ha perso l’aspetto pulverulento. La parte meglio conservata invece non aveva bisogno di un consolidamento di profondità ma soltanto di essere protetta in superficie. Le due parti non sono state rincollate perché la diversa alterazione, diversificata anche in sezione, la cui area presenta un aspetto levigato, vissuto, non “tagliente”, ci suggerisce che il monile fosse già rotto in antico, ossia prima dell’evento catastrofico del 79 dc. Interessante, infine, per me è stato l’aspetto simbolico connesso alla spiga: questa pianta simboleggia il ciclo delle rinascite e poiché il cereale prima di nascere in primavera resta sepolto sottoterra, il talismano rappresenta l’analogia del passaggio dell’anima dall’ombra alla luce. È inoltre un simbolo di fecondità.
Ma l’oggetto a mio parere più bello del “Tesoro della fattucchiera”, è un sigillo. Si tratta, a giudicare dalla tipologia di degrado che presentava e dalle bollicine d’aria ben visibili anche a occhio nudo, di una pasta vitrea, taglio cabochon, intagliata in negativo e raffigurante un satiro danzante – immagine certamente nota dalla scultura in bronzo di Mazara del Vallo, a cui questa assomiglia in modo impressionante per resa stilistica ed anatomica.
Il modellato è quello plastico della statuaria e la curvatura della schiena, che gli consente lo slancio del salto, mette in evidenza i muscoli addominali e obliqui. I capelli sono come piccole onde mosse dal vento, così come il nastro che discende dallo strobilo del tirso bacchico, tenuto ben saldo nella mano destra; adagiata sul braccio sinistro vi è la nebrìs, mentre la mano corrispondente stringe qualcosa, forse il kàntharos. La testa, reclinata all’indietro, è piegata verso destra, a suggerire il salto sul piede destro che ha appena compiuto flettendo la gamba sinistra. Il viso e lo sguardo sono rivolti verso l’alto, chiaramente immersi nell’enthousiasmòs dionisiaco… l’incisore è riuscito a realizzare con piccolissimi e attenti tratti l’espressione estatica dello stato di trance. Purtroppo, una consistente scheggiatura ci impedisce di godere delle parti finali di entrambe le gambe, quasi davvero a condividere la stessa sorte del satiro mazarese. Si tratta probabilmente di un sigillo che era incastonato in un alloggio in bronzo, di cui è stata rinvenuta una porzione dell’ovale. Per le pietre preziose il restauro che effettuiamo si limita per altro solo alle operazioni di pulitura mediante acqua demineralizzata e cotoncini realizzati al momento. Citando il Professor Mario Torelli, recentemente scomparso: “il sigillo, in quanto rappresentazione simbolica del possessore, trasmette in forma sufficientemente diretta l’immagine di sé che il proprietario intende fornire al mondo o comunque l’esibizione di tutti quei valori nei quali egli si identifica e che secondo la sua ideologia lo rendono immediatamente riconoscibile agli occhi di chi quel sigillo ammira”. Tra i quali ci sono stati anche i miei occhi, nel momento del suo restauro.
Francesca Leolini e’ Funzionario restauratore conservatore del Parco Archeologico di Pompei