Alla scuola di Pompei

Il mio coinvolgimento nel progetto di Elena Mazzi The School of Pompeii trae origine dalla ricerca svolta nella mia tesi di Dottorato, che ha indagato le relazioni tra patrimonio culturale, produzione di sapere contemporaneo e crescita sostenibile delle comunità locali, e dall’applicazione della stessa a Pompei, soggetto e oggetto di ricerca artistica sin dalla sua riscoperta nel XVIII secolo.

Nell’ambito di Creative Europe 2018, Artists in Architecture. Reactivating Modern European Houses, il progetto di Mazzi era risultato, qualche settimana prima, vincitore del bando EACEA 32/2017 and EACEA 35/2017 75. La partnership che lo aveva generato – tra BOZAR Museum di Bruxells, Mies van der Rohe Foundation di Barcellona e Università degli Studi di Napoli Federico II – mi vide partecipare alla finalizzazione dell’accordo di cooperazione sottoscritto, nel maggio 2019, fra il Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II e il Parco Archeologico di Pompei. Il coordinamento scientifico sarebbe stato affidato alla Professoressa Maria Rita Pinto del Dipartimento di Architettura e al Direttore del Parco Massimo Osanna, mentre la Professoressa Serena Viola sarebbe stata, insieme a me, responsabile e referente dell’accordo.

Il bando mirava a rendere nuovamente “produttive” le residenze di alcuni artisti e intellettuali europei, rispondendo agli obiettivi di rintracciare le possibili connessioni  che definirebbero una comune cultura europea e di contribuire a dimostrare il ruolo delle pratiche artistiche nel sollecitare la consapevolezza del pensiero critico, presupposto indispensabile di uno sviluppo sostenibile.

Il progetto di Mazzi si sarebbe attuato nell’ambito di Casina Fiorelli, edificio realizzato su una preesistenza all’interno del perimetro della città antica, che fu residenza di Giuseppe Fiorelli, Soprintendente di Pompei nella seconda metà dell’Ottocento e dimora temporanea per archeologi e viaggiatori provenienti, all’epoca, da tutto il mondo occidentale.

Casina Fiorelli è un esempio significativo di casa d’artista, o in questo caso di intellettuale, moderno, in quanto Giuseppe Fiorelli fu tra i fondatori dell’archeologia stratigrafica, artefice della suddivisione della città antica in regiones e insulae, fautore di una nuova concezione di Pompei quale “museo”, aperto a visitatori e studiosi, inventore della tecnica dei calchi in gesso che ha consentito di riportare alla luce, nella loro forma fisica originaria, esseri umani e animali che abitarono Pompei prima dell’eruzione del 79 d.C. La casa, che richiama il modello pompeiano della Casa del Poeta Tragico, di cui costituisce l’unica rielaborazione in situ, rappresenta quindi un precedente per le successive elaborazioni di residenze di artisti, di cui è archetipo. Ma, dal 1994, essa è anche sede del Laboratorio di Ricerche Applicate del Parco Archeologico di Pompei, un centro di ricerca interdisciplinare che si occupa del monitoraggio, della conservazione e dell’analisi di circa 3500 reperti mineralogici, petrologici, botanici, paleontologici, zoologici, antropologici, compresi tessuti e legni archeologici: reperti non solo fragilissimi ma – per le dinamiche e gli effetti chimico-fisici dell’eruzione sulle materie organiche pompeiane, che l’eruzione stessa contribuì a danneggiare e al contempo a conservare, trasformandoli – anche gli unici al mondo che documentino con tanta immediatezza la vita organica del mondo antico.

Questo era il contesto con cui si sarebbe confrontata Elena Mazzi, a seguito della selezione internazionale a cui avevano risposto complessivamente 362 artisti, di cui 75 per Casina Fiorelli. Dai verbali che ho letto, la giuria aveva manifestato particolare attenzione a un tema, elemento cardine del progetto di Mazzi: quello delle relazioni tra le persone e il loro ambiente di vita e di lavoro, indagato con l’approccio propriamente antropologico che contraddistingue la pratica artistica di Mazzi nella sua ricerca di identità, sensibilità, interessi, comportamenti nascosti, rimossi, marginali o comunque non socialmente visibili e quindi storicamente documentati rispetto a altri.

Ed è proprio alla ricerca degli “abitanti” di Pompei e alle relazioni con il loro contesto di vita e lavoro che l’artista dichiarò di volersi dedicare durante la sua residenza a Pompei. La sua attenzione, però, non sarebbe stata rivolta agli abitanti antichi – per esempio alle forme dei loro corpi pietrificati nei calchi fiorelliani o alle ricostruzioni dei loro volti, manufatti ottenuti proprio a Casina Fiorelli con tecniche sperimentali e in costante aggiornamento. La sua attenzione si sarebbe rivolta, invece, agli abitanti e lavoratori contemporanei del sito e, più precisamente, a chi in un passato a noi prossimo aveva vissuto quotidianamente la città antica contribuendo  non solo a tramandarne al futuro la “materia archeologica” ma anche a tenere viva la relazione (affettiva, di “cura”, di indagine) con essa, oggetto dell’attività svolta appunto presso il Laborario di Casina Fiorelli.

Il mezzo individuato, per documentare e per raccontare questa relazione, è stato il tableau vivant, una composizione scenografica che combinasse arti visive e performatività teatrale, richiamando alla memoria le immagini pittoriche ottocentesche di Pompei con i personaggi raffigurati in abiti antichi e inseriti in scene di vita quotidiana. Attraverso il ritratto, a una prima impressione malinconico, dei “vecchi” lavoratori, che Mazzi aveva ritrovato e contattato, ciò che si affermava era, in realtà, l’ipotesi di una Scuola di Pompei e di come essa fosse ancor’oggi operativa, pur nelle innumerevoli differenze di un’epoca contrassegnata da una trasformazione radicale dei metodi e del concetto stesso di lavoro, sia sotto il profilo organizzativo che tecnologico.

Riflettendo sulla mia collaborazione con l’artista l’aspetto che mi sembra particolarmente significativo, e che ora vorrei condividere, è appunto quello di aver contribuito a una riflessione sulle questioni, in realtà senza tempo e al di là di ogni suddivisione disciplinare, connesse alla pratica della conservazione e della cura… sia essa del patrimonio, del progetto, della rappresentazione. Riportando negli scavi alcuni colleghi non più operativi, per un giorno attori nel ruolo di loro stessi, Mazzi li aveva posti di fronte al passato del loro lavoro e, più o meno involontariamente, ne aveva provocato l’incontro, emozionante quanto inatteso, con le nuove generazioni e incarnazioni di altri lavoratori, fra cui me stessa.

Mazzi non solo ha risposto agli scopi di un progetto come Creative Europe 2018, e quindi all’indagine, che ne era alla base, sulle relazioni tra patrimonio culturale storico e contemporaneo. Ma ha costituito una, seppur piccola, dimostrazione di come ci si possa rapportare criticamente e assecondando una sensibilità personale a un patrimonio, al contempo millenario e turisticamente globalizzato, e quindi incredibilmente noto, quale quello di Pompei. Prima ancora di essere un’opera d’arte contemporanea, la “scuola di Pompei” ipotizzata da Mazzi è, nella mia esperienza del suo operare, un dispositivo di relazioni inedite e uno strumento di misurazione di ciò che muta e di ciò che permane. Ha rimesso in contatto abitanti antichi e nuovi, sullo sfondo delle materie archeologiche oggetto della loro professione, e del tempo lungo della città antica che sopravvive in quello, assai più breve, della vita umana e delle azioni connesse ai suoi lavori quotidiani. E, forse per questo, ha scelto di raccontare una delle tante storie poco note che si potrebbero raccontare di Pompei. Quella che è, fra molte altre, in parte anche la mia storia.

 

Anna Onesti é Funzionario Architetto, Responsabile Area Tutela del Patrimonio Culturale, Responsabile Ufficio Tutela dei Beni Paesaggistici, Parco Archeologico di Pompei