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© Pompeii Commitment. Archaeological Matters, un progetto del Parco Archeologico di Pompei, 2020. Project partner: MiC.
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Elena Mazzi. La scuola di Pompei

Commitments 04    14•01•2021

Elena Mazzi
La scuola di Pompei, 2019
5 fotografie, 5 testi (versione originale, 2019)
25 fotografie, 5 testi (versione per Pompeii Commitment, 2021)
Prodotto nell’ambito del progetto Creative Europe, curato dal Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II, Napoli (DiARC) in partenariato con BOZAR-Centre for Fine Arts, Bruxelles e Fundació Mies van der Rohe, Barcellona
Courtesy l’Artista
Photo Daniele Alef Grillo, Elena Mazzi

Tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento si ipotizzò di creare a Pompei una Scuola di Alta Formazione interna, che avrebbe previsto e garantito, nell’ottica dell’imminente pensionamento delle maestranze presenti, la continuità del loro operato e la salvaguardia dei loro metodi di lavoro. Il progetto, che nella sua impostazione si rifaceva a quella adottata all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, non fu però mai finalizzato e il restauro/studio/analisi delle materie archeologiche pompeiane venne in seguito affidato a ditte esterne, con poche eccezioni. Una di esse è rappresentata dai lavoratori del Laboratorio di Casina Fiorelli: fin dalla sua origine esso ha agito in collaborazione con altri centri di ricerca internazionali, attivi in differenti discipline, e ha adottato approcci e tecniche sperimentali nel campo del restauro di manufatti e dell’analisi di reperti organici. Quei lavoratori diedero così continuità alle intuizioni e innovazioni di Giuseppe Fiorelli, Soprintendente ottocentesco che alla Casina visse, aprendo quella che era al contempo la sua abitazione e la sede della Direzione del Parco anche a innumerevoli archeologi e visitatori. Partendo dalle ricerche e analisi condotte presso il Laboratorio, l’artista è riuscita a risalire ad alcuni di quei professionisti che, nei decenni, e mediante le loro competenze, hanno continuato a custodire, restaurare e raccontare nel loro lavoro quotidiano gli aspetti più vivi della società pompeiana. L’oggetto del loro studio era infatti la quotidianità stessa di Pompei, con gli interessi, i gusti, le abitudini che la definiscono e la rendono, per molti aspetti, non distinta dalla nostra. Quella “scuola di Pompei” che, istituzionalmente e storicamente, non era mai stata istituita corrispondeva in fondo alla loro storia, raccontata nel progetto che ne è conseguito, La scuola di Pompei, di cui viene qui presentata una nuova versione digitale, risultato vincitore nel 2019 del bando Artists in Architecture-Re-activating Modern European Houses (soggetto capofila Palais des Beaux Arts-BOZAR, Bruxelles; partner DiARC-Dipartimento di Architettura Università Federico II di Napoli e Fundació Mies van der Rohe di Barcellona). Esso è composto da cinque di queste storie, letture in parte reali e in parte fittizie in cui si articolano fonti difformi, vicine e lontane nel tempo: elaborati e dati scientifici, pubblicazioni, documenti amministrativi, lettere private, testimonianze orali, unite a impressioni personali dell’artista. A ogni storia è affiancato un tableau vivant fotografico in cui, in alcuni casi, sono presenti le maestranze storiche che Mazzi è riuscita a coinvolgere direttamente: Enrico Gabbiano, “il mosaicista ricordato da tutti i colleghi”, Maria Oliva, illustratrice e autrice di nove giornali di scavo sulla Casa di Giulio Polibio, Annamaria Ciarallo, deceduta nel 2013 ma ricordata dall’amico e collega Claudio Salerno, i  due tecnici di laboratorio in quel momento entrambi ancora in servizio, Luigi Buffone e Antonio Stampone. Insieme a loro, l’ultima immagine è dedicata alla figura del cane, icona presente nella Pompei antica nel plurimo ruolo di cane da compagnia, da guardia e da caccia; il cane è del resto ancora oggi, come scrive l’artista, “il fedele guardiano della città, e fino agli anni ’80 ha accompagnato anche i custodi nelle loro lunghe nottate di lavoro, durante le quali, disarmati, sorvegliavano l’immensità del sito archeologico”. La scuola di Pompei è in questo senso un progetto di ricerca ma senza una disciplina di riferimento, dedicato a evocare possibilità alternative di comprensione della realtà, attraverso il recupero di storie e di personaggi dimenticati ma che, se re-integrati nella definizione di che cos’è Pompei, ne restituiscono un’esperienza di città ancora al lavoro e, quindi, ancora vivente. AV

Immagine in home page: Elena Mazzi, Studio per “La scuola di Pompei”, 2019. Photo Elena Mazzi. Courtesy l’Artista

Elena Mazzi (Reggio Emilia, 1984) vive e lavora a Torino. Nei suoi progetti, basati sulla ricerca e articolati come palinsesti processuali e relazionali, esplora il rapporto fra essere umano e contesto per sperimentare forme di esperienza partecipata e collettiva, identificare ciò che distingue l’ordinarietà dall’eccezionalità, individuare dinamiche di censura ed emarginazione, attivare processi educativi e di coinvolgimento di gruppi marginali o circoscritti, analizzare contesti di crisi e condizioni di rischio – sia esso politico, sociale, economico, culturale o ambientale –, seguire la formazione dei valori identitari, di individui e comunità, in base a tradizioni e consuetudini e, parallelamente, gli scenari del loro possibile cambiamento o sradicamento. Lo strumento principale adottato dall’artista sembrerebbe non essere l’arte, almeno se intesa nelle sue logiche professionistiche, quanto una pratica di matrice antropologica e etnografica, o piuttosto biografica, che si esplicita nell’atto dell’interpretazione ed è collocabile fra lo studio del dato documentario e l’invenzione narrativa. Tra gli enti e le istituzioni con cui Mazzi ha collaborato, in occasione di mostre personali e collettive, progetti di ricerca e residenze: Botín Foundation, Santander; Botkyrka Konsthall, Stoccolma; Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino; Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato; COP17, Durban; Fondation Thalie, Bruxelles; Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia; Fondazione Ermanno Casoli, Fabriano; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; Fondazione Spinola Banna, Banna; Future Farmers A.I.R., San Francisco; GAM, Torino; GAMeC, Bergamo; GuilmiArtProject, Guilmi; MAMbo, Bologna; HIAP, Helsinki; Sonje Art Center, Seul; Whitechapel Gallery, Londra; ZK/U-Center for Art and Urbanistic, Berlino. Ha inoltre partecipato alla 16° Quadriennale di Roma, alla 14° Istanbul Biennale, alla 17° BJCEM Mediterranean Biennale e alla 14° Biennale d’Architettura di Venezia (Fittja Pavilion).

 

Metodi di lavoro

  14 • 01 • 2021

Il Laboratorio di Casina Fiorelli e le tecniche sperimentali nel campo del restauro e dell’analisi

Fabulae03

Alla scuola di Pompei

Anna Onesti

Historiae04

Giuseppe Fiorelli, pubblicazioni, 1860-1864, 1897


Inventario04

Il mosaico di Casina Fiorelli (Casa dei cadaveri di gesso)


Pompeii Commitment

Elena Mazzi. La scuola di Pompei

Commitments 04 14•01•2021

Cadeva nel silenzio quell’ultima luce quando c’incontrammo. Antico, radioso tramonto.
Vissuti, tragedie, misteri, miti passati, momento traslato. Non c’era nessuno. Dicesti: “Senti come tutto è reale!” Camminammo all’imbrunire, lungo la strada delle grandi pietre tonde e bianche. Un cane precedeva il nostro cammino.
La coda sembrava spazzare via la polvere bianca. Le rovine, mute spettatrici, sfilavano ai lati come servitù che accoglie. Giungemmo all’amata domus.
Parlasti della ricerca e del Laboratorio. Quanto fascino in quelle parole!
La Ricerca Applicata come bene supremo; gli studi interdisciplinari il gioco solenne delle diversità. Eri autorevole ma sensibile ai fiori.
Ti dissi: “La bellezza è un insieme di conoscenze”.
Immaginavo la trama e l’ordito degli antichi tessuti, i pollini delle piante che volano via, i pigmenti delle pitture che adornano i muri, le essenze che profumano i balsamari, il prato che colora i giardini.
Filamenti di DNA compongono poesie. Diversi sguardi e diverse discipline. Polibio un grande Laboratorio, precursore della moderna archeologia sperimentale.
Fine dell’isolamento.
Si delineava e disegnava una conoscenza diversa, straordinaria, che irradiava di luce le vite passate. Ora sì immortali, grazie alla scienza.
Una mutata sensibilità era finalmente arrivata. Non più presupporre ma affermare.
Il ruolo delle differenze seppe interpretare le nuove esigenze. La ricerca della verità poneva le discipline l’una vicina all’altra, facendo emergere un filo conduttore di un unico, grande, comune, profondo senso. Entrammo nell’atrio.
Lo spazio oscuro. Misteriosa percezione. Dialogo atteso. Preludio d’incontro. Assenza presenza. Parlai del mio lavoro.
“Il contemporaneo ha un cuore antico. Necessita un’archeologia del presente.
La cultura è un’azione militante”.
Sorridesti.
Il peristilio apparve davanti a noi. I calchi degli armadi, delle porte, delle piante. Segni arcaici. Narrasti: “Osserviamo
la natura di tutte le cose: l’impatto esplosivo sull’ambiente, il comportamento bioclimatico, i resti umani, il DNA antico, gli aspetti zoo-archeologici, il giardino, la calce, le malte, i marmi bianchi e le pietre colorate, l’acqua, i reperti vitrei, i manufatti lignei, i reperti tessili, il contenuto dei balsamari, i residui organici nelle lucerne e nei reperti”.
Pensai: “Qui tutti indagati!”
Ciò che prima era secondario era divenuto essenziale.
La domus era ora sintesi di nuove conoscenze, nuova sperimentazione, nuovo metodo d’indagine.
Ti dissi: “Raccontalo al mondo, Annamaria!” Anni dopo, realizzasti “Homo Faber”.
La Scienza era parte del sogno.
Ci sedemmo.
Il giardino si presentò.
Sembrava aspettarci.
La sua ricostruzione fu opera vera. Concettuale e filologico si erano abbracciati.
Arrivammo all’ambiente HH: luogo del pianto e del significato.
Spazio nero sospeso. L’altro sole.
Il silenzio. Ti chiesi: “Erano qui?”
“Si, un’intera famiglia. La ragazza portava due bracciali d’oro. Morì all’ultimo mese di gravidanza”.
Assenza presenza.
Ti dissi: “Ogni incontro è un’opportunità per un’idea contemporanea. Sintesi tra conoscenza classica e incontro emozionale. La prima formale, scientifica, rigorosa; la seconda emozionale, creativa, spirituale. Nuovo cammino identitario”.
Uscimmo. Mi guardasti e dicesti:
“Un percorso non ancora segnato. Un diverso spazio d’espressione”.
Venne poi il tempo in cui raccontammo il mito, la storia, gli déi della domus del liberto Polibio e della giovane ragazza.
Una grande installazione.
Un nuovo modello di fruizione della cultura. Un’intuizione diversa.
Scienza, arte e tecnologia aprirono un varco sull’archeologia del presente.
Uno spirito nuovo. Un nuovo sentiero per cose che saranno comprese più in là.
Ti salutai con molta gratitudine, desideroso di partecipare a quel divenire che era davanti a noi. Oggi comprendo.
Ci sono donne che, in silenzio, delicatamente, trasformano incomprensioni, dolori e sofferenze, in fonte di luce per gli altri, in guida ai segni antichi. Perché tutto muta.
Così come il fiore che cede al vento il suo polline fecondo.
La domus, per me, storia malinconica di grandi donne.
Tu figura aurea, magica. Per tutti monito. Le nostre vite transiti di luce nel tempo che fugge.
Gli occhi sono colmi di lacrime.
Assenze presenze.

Claudio Salerno ad Annamaria Ciarallo e alla giovane donna dal bracciale d’oro

Con n.2 unità si continua a scavare nell’amb. (EE) in uno strato di cenere misto ad un po’ di lapillo.
A quota −5.10 l.c., a m. 240 dal muro sud e a m. 2.00 dal muro ovest, affiora la testa di una statua di bronzo portante un diadema. Si continua a scavarle intorno per portarla completamente alla luce. Si vedono infatti le spalle, con fili di capelli acconciati morbidamente (sembrerebbe quindi un Efebo), le braccia reggenti due staffe reggi lampade ornate di tralci e fiori. Vediamo ora il bacino, le gambe (la destra portante e la sinistra protesa un po’ in avanti), i piedi poggianti su di una base circolare anch’essa di bronzo, h. m. 0.07 diam. 0.30. Il tutto poggia sul pavimento che è di cocciopesto e si trova a quota m. −6.40 dal livello campagna.
Man mano che la statua viene messa alla luce, affiorano altri oggetti anch’essi di bronzo, prevalentemente verso l’angolo sud-ovest. Sono grosse cerniere appartenenti certamente alla porta del vano sud (sono in tutto 6) tagliate lateralmente (inv. n. 2263 e 2268);
framm. di ferro della serratura; 1 borchia di bronzo con maniglia ad anello (inv. 2269).
Comincia a venire alla luce un candelabro. Sul braccio destro della statua rinveniamo un candelabro di bronzo, abbattutosi dalla zona sud-ovest. Nella caduta si spezzò la parte terminale superiore.
Essa ha l’altezza completa di m. 1.22.
Lo stelo è a ramo nodoso, poggia su tre piedi inframezzati da 3 foglie.
Si continua a scavare nella zona sud-ovest dell’ambiente per mettere alla luce l’altro candelabro di cui affiora solo
la parte superiore ed anche perché speriamo di rinvenire la lucerna che poggiava su di esso. Giungiamo così, con lo strato di cenere misto a qualche piccolo strato di lapillo, ad una quota di m. −5.98 l.c.
Il rimanente strato di lapillo col quale si giunge sul pavimento è quindi di cm. 52.
È più facile quindi togliere questo materiale ed infatti in breve tempo cominciano ad affiorare altri oggetti di bronzo.
Ripuliamo così tutto l’angolo sud-ovest ed ai nostri occhi compare non solo la lucerna che ci aspettavamo di trovare, bensì un vero tesoro.

8 Marzo 1978

Elementi e ingredienti:

2 pani carbonizzati originali del 79 d.C.
2 tecnici di laboratorio
2 camici da lavoro
1 macina
1 forno

La ricetta del pane di Pompei era semplice: acqua, farina di grano tenero e lievito madre.
Ciò che ancora non si è riuscito a capire, è come si riusciva a ottenere la tipica forma divisa in 8 spicchi, ma soprattutto perché. A questi ed altri interrogativi sta cercando di dare risposta Farrell Monaco, archeologa canadese esperta di archeologia dell’alimentazione: la sua ricerca si concentra sul cibo, sulle tecniche di preparazione e sulle ceramiche legate al cibo nel Mediterraneo romano.
Farrell, oltre a raccogliere e incrociare dati materiali o statistici, si concentra anche sugli aspetti sensoriali della tecnica alimentare, cucinando e mangiando davvero quello che studia.
Seguendo la ricetta ricavata da testi antichi, affreschi e ricerche archeologiche, ha riprodotto il pane pompeiano con l’obiettivo di comprendere il processo di preparazione, le proporzioni degli ingredienti, le caratteristiche del pezzo di pane durante l’impasto, la cottura e il sapore.
Antonio e Luigi accompagnano l’archeologa nelle sue ricerche, seguendola con fervore e interesse, e ricordando gli anni in cui il laboratorio si concentrava su percorsi olfattivi determinati dallo studio delle piante di Pompei. Sorridono
al ricordo dei ritrovamenti di un tarallo, che finì in mostra all’archeologico di Napoli, anziché nel laboratorio di Pompei. Sarebbe stato bello affiancarlo ai pani, creare una composizione culinaria, dall’atmosfera domestica, ed esporla al pubblico. Alla richiesta di ottenerlo, gli venne solo risposto: “Il tarallo no!”.

In quegli anni, amavo le sfide difficili.
In quegli anni, il dolore non lo sentivo più.
In quegli anni, fesso ero e fesso volevo rimanere. In quegli anni, avevo dai 15 ai 20 operai che lavoravano con me.
In quegli anni, mi sentivo onorato di fare quel lavoro.
In quegli anni, la passione era tale che amavo ogni mosaico come fosse una creatura femminile, fino a chiamarlo
“la mosaica”.
In quegli anni, non pensavo ad altro che a ricostruire al meglio quelle meraviglie.
In quegli anni potevo proporre al direttore cosa era meglio restaurare.

Oggi, ricordo quegli anni.

“Il mondo pompeiano non è rappresentato solo da monumenti superstiti e dalle umane tragiche vicende degli abitanti che vi vissero e vi si spensero nella storica eruzione del 79, ma anche dagli animali che parteciparono a quella quotidiana vita e che caddero anch’essi vittime di quella tragica morte.
E tra essi in primo luogo è il cane la cui professione di fedeltà, di custodi della casa, di prezioso coadiutore nella caccia del cibo trova a Pompei la più preziosa documentazione.” Amedeo Maiuri

A Pompei diversi cani trascorrevano le giornate nella domus senza svolgere particolari prestazioni, condividendo con gli abitanti della casa i momenti di intimità. Nella realtà di tutti i giorni, il cane da guardia risultava un componente del nucleo familiare legato affettivamente ai proprietari, ai figli ed agli schiavi; poiché trascorreva gran parte delle sue giornate come custode delle abitazioni, inevitabilmente diventava anche un  cane da compagnia.
Non è opportuno, comunque, fare una distinzione fra cane da guardia, da caccia e da compagnia, poiché i ruoli potevano essere intercambiabili.
Da parte sua, il pompeiano amava il proprio cane ospitandolo nella propria casa ed occupandosi amorevolmente delle sue necessità quotidiane. Nemmeno nel XX secolo il cane ha abbandonato Pompei. Il suo ruolo di animale da compagnia e da guardia ha continuato a persistere a fianco dei custodi, che fino agli anni ‘80 del ‘900 li utilizzavano come fedeli compagni di lavoro nelle lunghe notti di sorveglianza alla città.
I custodi, disarmati, vigilavano giorno e notte sulla città silenziosa, assicurandosi che ladri e malintenzionati non vagassero alla ricerca di bottini e tesori, e non offendessero l’immenso patrimonio storico e culturale del sito.