Pitture invisibili per partecipanti, non per spettatori: la Tomba del Tuffatore

L’esplorazione scientifica di Pompei ha inizio nel 1748; uno dei moventi principali della corte borbonica che finanzia gli scavi è la possibilità di arricchire le collezioni reali con sculture e affreschi, che vengono distaccati dal loro contesto originale e portati a Napoli. L’impatto che le scoperte nei siti vesuviani hanno sulla cultura europea dell’epoca difficilmente può essere sottostimato – dall’arte e dall’architettura fino al design e alla moda. Ma l’affresco antico che, come opera singola, ha avuto l’impatto più incisivo sulla cultura moderna e contemporanea non proviene da Pompei, bensì da un altro sito campano, ovvero Paestum, dove viene portato alla luce a partire dal 3 giugno 1968, 220 anni dopo l’inizio degli scavi a Pompei1.

Tomba del Tuffatore, lastra di copertura dipinta, in travertino. Paestum, Loc. Tempa del Prete (Sa), 480 a.C.
Parco Archeologico di Paestum e Velia. Gabinetto fotografico/foto di Francesco Valletta e Giovanni Grippo

 

La lastra di copertura della Tomba del Tuffatore, databile al primo quarto del V sec. a.C., fin dalla sua scoperta attira l’attenzione non solo di archeologi, ma anche di artisti, scrittori, filosofi. Un tema centrale nel dibattito che si evolve a partire da allora intorno al Tuffatore, è quello della qualità artistica, aspetto di cui non può sfuggire la dimensione contemporanea, considerando che il concetto di “arte” (e di “qualità artistica”) è profondamente connesso alla modernità.
Ciò che colpisce è, da un lato, l’entusiasmo degli artisti e degli scrittori contemporanei e, dall’altro, i giudizi piuttosto riservati, a volte apertamente negativi, degli archeologi classici, anche se vi sono, ovviamente, alcune eccezioni. Il primo autore a scrivere un libro sulla tomba, Mario Napoli, definì le pitture un capolavoro della tradizione perduta della pittura greca classica2. Tuttavia, il suo punto di vista suscitò aspre critiche, tra cui quelle di studiosi autorevoli come Ranuccio Bianchi Bandinelli3. Al contempo, i non addetti ai lavori rimasero molto impressionati dalla qualità artistica delle pitture, e oggi la Tomba del Tuffatore può essere considerata il dipinto antico che ha esercitato il maggiore impatto sulla cultura visiva moderna, nonostante la sua scoperta piuttosto tardiva rispetto alla pittura murale pompeiana4.
Vediamo alcuni esempi. Alcuni anni dopo il rinvenimento della tomba, il premio Nobel italiano Eugenio Montale scrisse una poesia intitolata Il Tuffatore5. L’artista italiano Carlo Alfano realizzò un’installazione contemporanea con lo stesso titolo per il museo di Paestum, dov’è esposta ancora oggi6. Ancora, nel 2012, il filosofo e regista francese Claude Lanzman ha scritto nella prefazione de La Tombe du divin plongeur:

Je suis allé pour la première fois à Paestum dans les années cinquante. Avec Simone de Beauvoir et Sartre, nous passâmes là presque un jour entier, du dur soleil de midi à la nuit tombante, en laissant aux colonnes doriques le temps de blanchir jusqu’à l’os. (…) C’est bien plus tard, puisqu’elle n’a été découverte qu’en 1968, que j’ai vu pour la première fois, sans pouvoir m’en arracher, la tombe du divin plongeur. Souvent j’étais resté trop longtemps dans l’enceinte des temples, arrivant au musée après la fermeture, ou, d’autres fois, le trouvant en travaux, qui pouvaient durer des semaines ou des mois. Jamais je n’aurais imaginé être touché en plein cœur, tremblant et bouleversé au tréfonds de moi-même, comme je le fus le jour où il m’apparut, arc parfait, semblant plonger sans fin sans l’espace entre la vie et la mort.7

In Metabolism: The Exhibition of the Unseen, Paul Carter, artista, scrittore ed esperto del patrimonio culturale di Melbourne, pur sottolineando che le pitture non sono state realizzate per essere viste (e ponendosi una serie di domande curatoriali derivanti da tale circostanza), insiste nel ritenere il Tuffatore un’autentica opera d’arte che, per sua stessa natura, sfida le attuali politiche di categorizzazione ed esposizione dell’arte.
D’altro canto, ecco alcuni esempi di ciò che gli studiosi classici hanno affermato sulle pitture. Bianchi Bandinelli ha sostenuto che le pitture non rivelano “nulla di nuovo” sulla pittura greca antica, e che non sono nemmeno “vera pittura greca, ma pittura locale, ‘coloniale’, o provinciale che dir si voglia, di buona (non eccezionale) pittura e di repertorio (sic)8.”
Analogamente, nel suo manuale del 1994 sulla pittura greca antica, Ingeborg Scheibler sottolinea la “mediocrità artigianale” delle pitture della Tomba del Tuffatore. Ritiene che le pitture, ai suoi occhi tipici prodotti di una “zona marginale” (Randgebiet), sarebbero apparse “piuttosto modeste accanto alle opere di Cimone di Cleonae o di Polignoto di Taso, attivo la generazione successiva”9. Ovviamente, la ragione è che si attribuisce a Cimone di Cleonae l’invenzione delle “viste oblique sulle figure umane” (Plinio, Storia Naturale XXXV 34), una sorta di prospettiva del corpo umano, mentre il Tuffatore è un disegno dai contorni ben definiti in cui tutte le figure appaiono di profilo.
Ora, chi ha ragione? Premesso che giudicare l’arte è sempre un atto soggettivo, credo che i non addetti ai lavori abbiano colto qualcosa che è sfuggito alla maggioranza degli studiosi classici, ossia la necessità di superare le categorie e i metodi tradizionali della storia dell’arte classica per comprendere queste pitture.
Ciò risulta evidente dall’affermazione di Scheibler. L’autrice immagina le pitture della tomba in una sorta di galleria o collezione virtuale, appese alla parete accanto a un dipinto di Cimone di Cleonae. Una tale collezione virtuale è presupposto essenziale per le competenze di studiosi come Scheibler e Bianchi Bandinelli, in quanto offre lo spazio di riferimento in cui situare tutte le conoscenze storiche di questa tipologia d’arte. La storia dell’arte nella sua forma tradizionale ha una ragione d’essere solo in presenza di un corpus di opere definito in termini di tecniche, stili, aree geografiche e, naturalmente, cronologia. Solo in questo caso ha senso parlare di pittura greca classica, di pittura rinascimentale italiana, di impressionisti francesi e così via.
Ora, il problema non è il fatto che la collezione in cui Scheibler osserva la Tomba del Tuffatore accanto a un’opera di Cimone non esiste fisicamente. Non esiste una collezione museale che contenga l’intero canone degli impressionisti francesi, eppure ha senso confrontare le loro opere in quanto parte di una tradizione visiva comune. Ciò che invece potrebbe rappresentare un problema è che non abbiamo la minima idea di come fossero i dipinti di Cimone, visto che non se ne è conservato nessuno, nemmeno delle copie. Il vero problema, tuttavia, nel caso del Tuffatore, è l'”impossibilità di inserirlo in qualsiasi collezione o canone storico-artistico, anche solo immaginario o virtuale.” Le pitture nella Tomba del Tuffatore divennero invisibili una volta chiusa la tomba, pertanto non furono più accessibili allo sguardo di qualsiasi osservatore. L’analisi tecnica mostra che le pitture sono state eseguite sul posto e in occasione del funerale; dopo il rito funerario, sono scomparse per sempre.
È certamente problematico inserire un’immagine che non è stata concepita per essere vista in una collezione virtuale di opere d’arte e confrontarla con altri dipinti come se fosse appesa alla parete di un museo. La nozione stessa di opera d’arte, così come la si intende nella tradizione occidentale, si infrange di fronte a un’immagine che non viene realizzata per essere osservata. Giudicare una tale immagine come se facesse parte di una collezione accessibile, anche se immaginaria o virtuale, di opere esposte e comparabili, significa ignorare una delle caratteristiche più importanti dell’opera stessa: il suo essere invisibile.
Non si tratta di un semplice dettaglio, ma di un elemento che deve essere invece considerato cruciale nel contestualizzare la Tomba del Tuffatore. Non si può semplicemente collocare quest’opera in una tradizione caratterizzata dalla stessa accessibilità e visibilità, ad esempio, dell’impressionismo del XVIII secolo10. Sarebbe come tentare di scrivere la storia della letteratura classica confrontando i frammenti delle tragedie di Euripide con le cosiddette lamine d’oro orfiche rinvenute in alcune tombe antiche. Così come le pitture della Tomba del Tuffatore non sono state realizzate per essere viste, questi testi non sono stati scritti per essere letti. Contengono preghiere e indicazioni per il viaggio delle anime dei defunti verso le terre benedette di Persefone e Dioniso. In genere sono scritti in esametri, e personalmente li trovo molto poetici. Ecco un esempio proveniente da Thurii nell’Italia meridionale, databile all’inizio del IV secolo a.C:

Vengo tra i puri, o pura Regina degli Inferi,
Euklés e Eubuléus e altri numi immortali:
ché dichiaro di appartenere anch’io alla vostra stirpe beata.
Ma scontai la pena per azioni non giuste,
e mi assoggettò il Destino e il folgorante Saettatore celeste.
Volai via dal cerchio che affligge duramente, penoso,
e salii sulla desiderata corona con piedi veloci;
quindi mi immersi nel grembo della Signora, Regina ctonia;
poi discesi dalla desiderata corona con piedi veloci.
“Felice e beatissimo, sarai dio invece che mortale”.
Agnello caddi nel latte.

Questi testi non dovrebbero essere, e di solito non sono, trattati come opere letterarie in senso tradizionale, ma come testi magici. I testi magici non sono scritti per essere letti e inseriti in un canone; si ritiene invece che abbiano vita propria, indipendentemente dalla presenza del lettore; la loro funzione consiste nel manipolare lo spirituale e il soprannaturale, ossia le anime dei defunti, le divinità dell’aldilà e così via; non mirano a impressionare alcun studioso antico o moderno.
I testi magici hanno quindi molto in comune con le pitture della Tomba del Tuffatore: l’invisibilità/l’illeggibilità e l’escatologia, ossia il fatto di essere legati all’aldilà. Non è mia intenzione scendere nei dettagli del contesto religioso, e forse misterico, della tomba. Tuttavia, è fuor di dubbio che le pitture siano state eseguite in occasione di un funerale, a prescindere dallo specifico contesto religioso in cui si inserivano.
Esistono altre immagini magiche che potrebbero essere paragonate alle pitture funerarie invisibili di Paestum, per esempio gli xoana arcaici che conosciamo attraverso le fonti scritte. Come ha sottolineato Jean-Pierre Vernant11, essi appartengono a una categoria di oggetti che secondo gli standard moderni non erano immagini, in quanto “non hanno superato la soglia oltre la quale si ha il diritto di parlare di immagini in senso stretto.” Vernant sottolinea tre aspetti: (1) la soppressione della paternità dell’opera (si dice che molti xoana non sono stati realizzati dagli uomini, ma sono caduti dal cielo, portati a riva dalle onde, e così via); (2) la semplicità della loro forma e del loro stile; e (3) il fatto che non sono stati eseguiti per essere visti, se non per certi gruppi di persone in determinati momenti delle attività rituali. Riguardo a quest’ultimo punto, Vernant afferma:

L’idole n’est pas faite pour être vue. La regarder, c’est devenir fou. Aussi est-elle souvent enfermée dans un coffret, gardée dans une demeure interdite au public. Cependant, sans être visible comme doit l’être une image, l’idole n’est pas pour autant invisible à la façon du dieu qu’on ne saurait regarder en face. Elle est prise dans le jeu du cacher-montrer. Tantôt dissimulé, tantôt découvert, le xoanon oscille entre les deux pôles du “ maintenu secret” et du “manifesté au public”. La “vision” de l’image se produit chaque fois par rapport à un “caché” préalable qui lui donne sa signification véritable en lui conférant le caractère d’un privilège réservé à certaines personnes, à certains moments, dans certaines conditions.12

Vernant sostiene che nell’antica Grecia la nozione di immagine passò dall’indicare un oggetto magico a connotare la rappresentazione di altri oggetti solo verso la fine del V secolo a.C.
Mi sembra che la sua intuizione non abbia avuto un grande impatto, nello specifico, sulla storia dell’arte classica. Eppure credo che ritrovamenti come la Tomba del Tuffatore richiedano un approccio che tenga conto della natura magica di queste opere e, in particolare, del fatto che non erano visibili nel modo in cui le immagini sono visibili oggi.
In tale contesto, mi preme evidenziare due aspetti: il ruolo dei pittori/artisti e quello degli osservatori.

Pittori dell’invisibile
Probabilmente non è una semplice coincidenza che pitture come quelle della Tomba del Tuffatore non rechino la firma dell’artista. Lo stesso vale anche per tombe successive del IV secolo a.C., quando le scene figurative si diffondono nelle tombe affrescate a Paestum. Esiste solo un caso in cui si legge un nome su una lastra: PLASOS (tomba Gaudo 1/1972). Non è stato tuttavia ancora accertato se si tratti del nome del proprietario della tomba o del pittore13. Al contempo, alcuni pittori di vasi che abitavano a Paestum, ossia Assteas e Python, firmavano le loro opere, così come molti pittori di vasi ateniesi alla fine del VI e del V secolo a.C.
Come ho già sostenuto in passato, i pittori che hanno realizzato la Tomba del Tuffatore abitavano probabilmente a Paestum, dove vi era una tradizione di tombe affrescate, anche se solitamente non presentavano elementi figurativi. Questa tradizione ha inizio alla fine del VI secolo a.C. (Tomba delle Palmette: si notino le palmette sulla lastra di copertura, esattamente nella stessa posizione della Tomba del Tuffatore) e prosegue fino all’inizio del IV secolo a.C. Apparentemente, la Tomba del Tuffatore si colloca in una tradizione locale; non è il prodotto isolato di una presenza etrusca o italica in città, come è stato sostenuto in passato. Tuttavia, dato che in questo periodo il numero di tombe affrescate rimane estremamente basso (non più di 15 su oltre cinquecento), è improbabile che siano state realizzate da botteghe specializzate in pittura funeraria. La richiesta di tombe affrescate era troppo bassa perché vi fossero botteghe specializzate che vivevano unicamente delle decorazioni funerarie. Emerge pertanto un paradosso: da un lato, i pittori di tombe sembrano concentrarsi a Paestum, dall’altro, non potevano vivere solo di questa attività. La soluzione che suggerisco per risolvere il dilemma è la seguente: i pittori lavoravano in altri ambiti più redditizi e solo occasionalmente realizzavano pitture funerarie. Le principali attività dei pittori consistevano probabilmente nella decorazione dei templi e forse anche delle case patrizie. I materiali erano gli stessi sia per i templi che per le tombe: in entrambi i casi, troviamo infatti travertino ricoperto di stucco dipinto. In passato Angela Pontrandolfo e Marina Cipriani hanno ipotizzato che vi sia stato una sorta di passaggio tecnico dal cosiddetto “stile strutturale” (utilizzato nei templi e nelle dimore) alle pitture funerarie di Paestum14. Ebbene, ciò è confermato da una nuova analisi archeometrica. Le analisi effettuate dall’Associazione Italiana di Archeometria sotto la direzione di Carmine Lubritto hanno dimostrato che lo stucco delle tombe più antiche assomiglia a quello della cosiddetta Basilica, il più antico dei tre grandi templi di Paestum, risalente al 560/20 a.C. circa. Lo stucco delle tombe successive è simile a quello del cosiddetto tempio di Nettuno (intorno al 460 a.C.). Sembra quindi che la decorazione dei templi e la pittura delle tombe si svilupparono in una direzione simile. Ciò rende alquanto plausibile l’ipotesi che le botteghe che operavano in entrambi gli ambiti fossero strettamente legate o addirittura le stesse. Possiamo pertanto supporre che i pittori facessero parte di un gruppo di artigiani altamente specializzati che lavoravano nell’ambito dell’architettura dei templi15. Sappiamo pochissimo delle loro condizioni di vita e della loro formazione, ossia solo ciò che si può dedurre indirettamente dallo studio delle rovine architettoniche. Esaminando le evidenze disponibili, per esempio il modo in cui è stato risolto il conflitto angolare, sembra che viaggiassero e facessero parte di reti che permettevano loro di condividere le innovazioni tecniche e artistiche su vaste aree. Teniamo a mente quanto segue per le conclusioni: la pittura greca faceva parte delle competenze tecniche scambiate attraverso le reti degli artisti; non era un’esperienza visiva alla portata del pubblico, che era fondamentalmente costituito da proprietari terrieri e contadini che vivevano a Paestum. È improbabile che un qualsiasi cittadino di Paestum avesse visto un dipinto di Cimone di Cleonae, e solo pochi avevano visitato città del loro paese d’origine come Olimpia o Delfi.

Nessun osservatore, solo partecipanti
Questa riflessione mi porta al secondo punto: l’esperienza di chi osserva. In realtà, in questo caso “partecipanti” è un termine più appropriato di “osservatori”, se si considera che le pitture erano visibili solo nel contesto delle performance rituali. Infatti, erano parte integrante del rituale, al pari delle preghiere e dei canti eseguiti durante la cerimonia funebre. Ciò significa che non avevano un pubblico: coloro che le guardavano, facevano parte essi stessi della rappresentazione. Prima che venisse portata alla luce dagli archeologi moderni, la Tomba del Tuffatore non aveva osservatori, ma solo partecipanti. Questa è un’altra ragione per cui risulta così problematico contemplare i dipinti, anche solo con l’immaginazione o virtualmente, all’interno di una sorta di galleria ideale o collezione della pittura classica. Al posto dei metodi tradizionali della storia dell’arte come lo stile e l’iconografia, ciò che serve in questo caso è un’antropologia della pittura intesa come parte delle attività rituali e come “elemento magico” (in senso religioso).
In tale contesto, la Tomba del Tuffatore potrebbe rivelare un aspetto più generale della pittura antica. La tomba rappresenta, è vero, un caso estremo. Tuttavia, la sua invisibilità getta luce anche sui dipinti inseriti in contesti non funerari dove l’accesso e la visibilità erano limitati a certi gruppi e a determinati momenti. Mi riferisco alle pitture presenti nei templi antichi, come il tempio di Apollo a Delfi, dipinto da Polignoto (Plinio XXXV 35). Un altro esempio, anche se non si tratta di pittura in senso stretto, potrebbe essere il fregio del Partenone di Fidia, del quale si dice che inizialmente fosse un pittore, come evidenziato da Plinio (XXXV 34). È noto che il fregio si trovava in una posizione dalla quale era difficilmente visibile.
Inoltre, in un periodo in cui la funzione religiosa del tempio continuava ad essere centrale e i templi non erano ancora diventati una specie di musei nostalgici come avvenne ai tempi di Pausania, erano davvero poche le persone che potevano ammirare i dipinti “visibili” all’interno dei templi antichi. Coloro che guardavano i dipinti lo facevano prima di tutto in quanto pellegrini e partecipanti alle attività rituali, non come visitatori di musei o esperti d’arte. Non c’era spazio, possiamo dire, per la prospettiva di un critico d’arte come Scheibler. La situazione è cambiata nel periodo ellenistico e imperiale, ossia molto tempo dopo la realizzazione della tomba di Paestum16. Per il VI e V secolo a.C. non è possibile tracciare una linea netta e distinta tra la Tomba del Tuffatore e le pitture murali nei templi: nella maggior parte dei casi, se non in tutti, visibilità e accesso erano limitati. Le uniche eccezioni che mi vengono in mente sono i dipinti storici che si potevano vedere nella Stoa Poikile nell’Agorà di Atene a partire dai tempi di Polignoto in avanti.
Abbiamo una descrizione del modo in cui l’arte era percepita durante i rituali grazie allo Ione di Euripide, dove il coro di fanciulle che accompagna Creusa a Delfi commenta le immagini che vede nel santuario. Lo stato di eccitazione e coinvolgimento emotivo delle giovani donne nel riconoscere i loro eroi e le loro dee preferiti (soprattutto, “la mia dea Atena”: Ione 230), rende l’idea dell’emotività con cui i visitatori dei tempi antichi guardavano l’arte nei santuari. Al contempo, colpisce il fatto che “a questi spettatori non interessavano il periodo artistico e lo stile, ma solo la chiarezza e l’essere riconoscibili”17.
Nella parte finale del mio articolo, vorrei dimostrare che una traccia dell’immagine magica e apparentemente primitiva, non artistica, che nell’immaginario moderno tende ad essere identificata con l’irrazionale e con ciò che non è classico, può essere trovata nel cuore e all’origine della storia dell’arte classica, ossia nella Storia Naturale di Plinio. Infatti, Plinio riconosce la natura magica della pittura, anche se non in maniera esplicita. Tuttavia, il suo testo conferma in definitiva l’inadeguatezza delle categorie e dei metodi della storia dell’arte classica per quanto riguarda la pittura antica. Ciò è particolarmente evidente in due passaggi del libro XXXV della Storia Naturale: il primo riguarda la cronologia, l’altro l’estetica.
In XXXV 34, Plinio menziona un paradosso nella storia della pittura greca, per il quale non riesce a fornire una spiegazione coerente. Nell’enumerare i pittori antichi (in altre parole, nell’esporre la storia della pittura greca, perché è da allora che la storia dell’arte diventa la storia dei pittori e dei committenti18) si lamenta del fatto che “in questo campo [la pittura], la consueta precisione dei greci appare un po’ incoerente nel collocare i pittori di così tante Olimpiadi dopo gli scultori e gli artisti toreutici, e il primo di essi viene citato solo in occasione della novantesima Olimpiade” (non constat sibi in hac parte graecorum diligentia multas post olympiadas celebrando pictores quam statuarios ac toreutas, primumque olympiade lxxxx). Prosegue poi elencando alcuni pittori che si sapeva essere vissuti molto prima della novantesima olimpiade, ossia prima del 420/416 a.C. Nonostante Plinio abbia trovato sorprendente questa circostanza, va ricordato che la novantesima Olimpiade si svolse all’incirca nel periodo in cui Vernant19 colloca il passaggio dall’immagine come oggetto magico (presentazione dell’invisibile) all’immagine come rappresentazione, volta a impressionare l’osservatore per il modo in cui riesce a rappresentare la realtà (imitazione dell’apparenza). Mi chiedo se l’inizio relativamente tardivo della storia della pittura greca nelle fonti di Plinio rifletta in qualche modo l’incapacità della pittura del VI e V secolo a.C. di assoggettarsi alla logica della storia dell’arte a seguito della natura magica dell’immagine ancora prevalente a quei tempi. La tradizione greca a cui Plinio fa riferimento aveva apparentemente escluso i pittori del VI e V a.C. dalla storia della pittura in quanto techne (“tecnica”) o arte in senso stretto, e questa potrebbe essere più che una coincidenza.
La pittura ha continuato a trascendere i concetti di storia dell’arte, intesa come storia del perfezionamento delle tecniche e degli stili di pittori celebri, anche dopo il suo inserimento (o dovremmo dire, la sua caduta?) nell’ambito dell’estetica e della techne. Plinio decostruisce lo schema del perfezionamento della pittura da lui stesso elaborato che consiste in un’escalation di tecniche sempre più raffinate atte a creare rappresentazioni estremamente realistiche di oggetti del mondo reale. La storia di Zeusi che dipinge dell’uva e degli uccelli che volano verso il dipinto per beccarla è emblematica dell’esaltazione del virtuosismo tecnico, della prospettiva e del realismo. Eppure, una volta arrivato al punto più alto, Plinio ricade in una concezione quasi magica della pittura in cui “meno è meglio” e dove al posto delle tecniche raffinate troviamo un’esecuzione rapida. Mi riferisco alla storia di Apelle e Protogene impegnati in una sorta di giocosa contesa. Apelle, “che superò tutti quelli che lo avevano preceduto e tutti quelli che vennero dopo di lui”, fa visita al suo collega ma non lo trova nello studio; disegna un’unica, sottilissima linea su una grande tela bianca collocata nello studio; Protogene al suo ritorno riconosce la mano di Apelle (ecco il potere magico della pittura: gli oggetti agiscono al posto delle persone, le sostituiscono) e traccia una linea ancora più sottile, ordinando alla sua serva (una schiava, ossia, per gli antichi greci, una persona che non vede e non comprende in maniera autonoma) di mostrarla ad Apelle. Apelle, al suo ritorno, traccia una linea ancora più sottile; Protogene, nel vederla, riconosce la sua sconfitta (Plinio XXXV 36).
Circa trecento anni dopo, Plinio vide la tela al Palazzo di Cesare sul Palatino a Roma:

sull’ampia superficie non c’erano altro che le tre linee, così straordinariamente sottili da sfuggire alla vista: rispetto alle opere più elaborate di numerosi altri artisti aveva tutta l’apparenza di uno spazio vuoto; eppure proprio per questo motivo attirava l’attenzione di tutti, ed era tenuta in maggiore considerazione di qualsiasi altro dipinto presente.

Non si sa se accanto ad essa fosse appesa un’opera di Cimone di Cleonae. Quello che sappiamo, grazie a Plinio, è che questo “spazio vuoto” con le tre linee, non appariva affatto “modesto”, ma era invece molto ammirato20. La conclusione è che se appendete il Tuffatore nella vostra galleria immaginaria o virtuale, non abbiate paura di concedergli un posto tra i capolavori.

 

Gabriel Zuchtriegel è il Direttore Generale del Parco Archeologico di Pompei

 


 

1 Per lo stato dell’arte riguardo la ricerca archeologica sulla Tomba del Tuffatore cfr. A. Meriani, G. Zuchtriegel (a cura di), La Tomba del Tuffatore. Rito, arte e poesia a Paestum e nel Mediterraneo d’epoca tardo-arcaica, Atti del Convegno Internazionale (Paestum, 4-6 ottobre 2018), Edizioni ETS, Pisa 2021.

2 M. Napoli, La Tomba del Tuffatore. La scoperta della grande pittura greca, De Donato Editore, Bari 1970.

3 R. Bianchi Bandinelli, 1970-1971.

4 A. Pontrandolfo, M. Scafuro (a cura di), Dialoghi sull’Archeologia della Magna Grecia e del Mediterraneo, Atti del I Convegno Internazionale di Studi (Paestum, 7-9 settembre 2016), Paestum 2017.

5 Eugenio Montale, Diario del ’71 e del ’72, Mondadori, 1973.

6  Tempi prospettici, 1970-72.

7  “Sono andato la prima volta a Paestum negli anni Cinquanta. Con Simone de Beauvoir e Sartre, vi abbiamo trascorso quasi un giorno intero, dal mezzogiorno infuocato fino al calar della notte, lasciando alle colonne doriche il tempo di imbiancarsi fino all’osso. […] Solo molti anni dopo, visto che è stata scoperta solo nel 1968, ho visto per la prima volta, senza potermene distaccare, la Tomba del Divino Tuffatore. Spesso, ero rimasto troppo a lungo entro la cinta dei templi, quando arrivavo al museo dopo la chiusura, oppure, altre volte, trovandolo con lavori in corso, che potevano durare settimane o mesi. Mai, avrei immaginato di essere colpito nel cuore, tremante ed esterrefatto nel profondo dell’animo, come lo fui il giorno in cui mi apparve, con un arco perfetto, mentre sembra tuffarsi senza fine, senza spazio fra la vita e la morte”. (N.d.T: nostra traduzione)

8 “Gli equivoci che occorre chiarire sono due: a) le pitture della Tomba del Tuffatore sono senza dubbio un documento prezioso, ma esse non ci rivelano nulla di nuovo sulla pittura greca, di quanto già non si sapeva; b) esse non sono vera pittura greca, ma pittura locale, ‘coloniale’ o provinciale che dir si voglia, di buona (non eccezionale) pittura e di repertorio. L’errore di ritenere questo documento una ‘rivelazione’ deriva da due punti di partenza sbagliati, dai quali muove Mario Napoli…” (R. Bianchi Bandinelli, op. cit., p. 138)

9 Ingeborg Scheibler, Griechische Malerei der Antike, C.H. Beck, München 1994, p. 89: “Questa scoperta può essere sensazionale, se si considera che si tratta di un’opera d’arte artigianale media. Sarebbe probabilmente molto modesta, se la si paragonasse alle opere di artisti come Cimone di Cleone o a quelle di Polignoto di Taso della generazione successiva, visto che la tomba di Paestum è databile fra i periodi di questi due artisti.”  Si veda anche Robert 1999, pp. 234-235, il quale sostiene che “si ricollegheranno spontaneamente alla produzione artigianale sia le pitture della Tomba del Tuffatore, sia i vasi dipinti dai ceramisti contemporanei.” (N.d.T: nostra traduzione)

10 Agnès Rouveret, La peinture dans l’art funéraire: la tombe du plongeur à Paestum, in C. Guittard, A. Rouveret (a cura di), Recherches sur les religions de l’Italie antique, DROZ, Geneve 1976.

11 Jean-Pierre Vernant, Myth and Society in Ancient Greece, Zone Books, 1988, pp. 342-343.

12 L’idolo non è fatto per essere visto. Se lo si guarda, si impazzisce. Di conseguenza, è spesso racchiuso in uno scrigno, conservato in un posto vietato al pubblico. Tuttavia, senza essere visibile come deve esserlo un’immagine, l’idolo non è visibile come un dio che non può essere guardato in viso, ma è colto nel gioco del nascondersi mostrandosi. Tanto dissimulato, quanto scoperto, lo xoanon oscilla fra i due poli del “segreto mantenuto” e del “manifestato al pubblico”. La “visione” dell’immagine si rivela ogni volta in rapporto a un “nascosto” precedente che gli dà il vero significato, conferendogli il carattere di un privilegio riservato ad alcuni, in certi momenti, a certe condizioni. (N.d.T: nostra traduzione)

13 Angela Pontrandolfo, Agnès Rouveret, Le tombe dipinte di Paestum, 1992, pp. 377-380. La tomba è databile al 370/60 a.C. e apparteneva a un individuo di sesso maschile.

14 A. Pontrandolfo 1987; M. Cipriani, A. Pontrandolfo, 2010.

15 G. Zuchtriegel, 2016.

16 A. Rouveret, 1989 op. cit.; R. Robert, 1999.

17 M. Emerson, Greek Sanctuaries and Temple Architecture: An Introduction (2nd edition). Bloomsbury 2018, p. 254.

18 Si veda in proposito A. Rouveret, 1987.

19 Vernant, Myth and Society in Ancient Greece cit., pp. 340-341.

20 Utilizzando questo aneddoto come “metafora” della concettualizzazione della pittura come “sistema di segni” all’interno di una “storia lineare della pittura greca”, Renaud Robert (1999 op. cit., p. 240) sembra perdere di vista la natura rivoluzionaria di questo passaggio in termini di linearità cronologica, stilistica e tecnica.