Nel mio lavoro di antropologo fisico, in qualità di Responsabile del Laboratorio di Ricerche Applicate del Parco Archeologico di Pompei, mi occupo ogni giorno dell’antica umanità di Pompei. E, grazie al lavoro dei miei colleghi in laboratorio, coordino gli studi di una molteplicità di materiali, organici e inorganici, oggetto delle campagne di scavo in corso. Come, per esempio, quelli che sono emersi dalla riscoperta – la più recente di cui mi sono occupata – del termopolio della Regio V,3,I.
Ed è dalla relazione quotidiana con questi materiali, dall’interpretazione dei dati e delle informazioni che essi mi rivelano, all’atto del loro studio, dall’umanità che traspare dai resti scheletrici a millenni di distanza, che insieme è emersa la sensazione di essere testimone di una necessità, di un desiderio che sono in fondo insiti in queste materie stesse: la necessità, il desiderio, di raccontarsi…
“[…] Siamo stati una città. O meglio, la popolazione di una intera città, che in periodo imperiale era fiorente e ricca, una città di mare, e quindi di frequenti scambi. Anfore d’olio e vino, stoffe, persone […] ogni tipo di merce transitava nella città di Pompei. La composizione dei suoi abitanti era cambiata nel tempo, perché al substrato sannitico ed etrusco si era mescolato nel tempo il ‘DNA’ dell’Impero Romano [1], portando con sé lingue, forme e culture dal Mediterraneo e ben oltre (alcuni di noi si vantavano di avere in casa manufatti che venivano da quella che ora chiamereste India…).
Il mare era ben presente non solo per la vicinanza alla città [2], ma anche nei gusti e nei sapori, che non erano certo quelli a cui voi siete abituati oggi: una prelibatezza che veniva consumata nelle nostre cucine e nei numerosi termopolia – l’equivalente delle vostre botteghe di cibo da strada – era il garum [3]. Pesce macerato a lungo, portato da luoghi lontani in anfore e contenitori appositi. Oggi vi farebbe orrore, ma noi sapevamo apprezzarne la qualità e le diverse ricette: c’è garum e garum!
Che meraviglia erano quei sapori, soprattutto se accompagnati da una buona dose di vino… non tutto era buono, molti osti lo correggevano con farina di fave e albumi, in modo da camuffarne il sapore[4]. Ma a nulla valevano le belle decorazioni dei banconi dei locali, i veri pompeiani sapevano dove c’era il vino buono e dove invece quello corretto …
Eravamo tanti, una popolazione di circa quindicimila abitanti secondo le stime degli archeologi [5]. E fra noi liberi e schiavi, gente di rango adorna di bracciali d’oro e popolo che tirava a campare, ma tutti gremivamo le belle strade della nostra città, dotate di un sistema di smaltimento dell’acqua, anche se… insomma… non sempre erano pulitissime, tanto che i marciapiedi erano altissimi e le strisce pedonali modificate per consentirci di non sporcarci i piedi e le calzature, quando potevamo permettercele. Però avevamo moltissime fontane, che ci permettevano un approvvigionamento idrico, a differenza di molte altre popolazioni all’epoca, e molti patrizi avevano l’acqua direttamente in casa, usata anche per far risaltare lussuosi ninfei spesso decorati con conchiglie o immagini di animali esotici.
Gli animali, a proposito… erano tanti gli animali in città. Potremmo dire che erano anche loro abitanti di Pompei. Piccoli cavalli, asini e muli erano impiegati nella vita quotidiana, per trasportare le merci o per far funzionare le tante macine che fornivano la farina ai nostri forni. Ben diversi dagli splendidi destrieri foraggiati nelle lussuose ville suburbane [6]. E i cani… ovunque. Randagi, ma anche fieri guardiani o cani da pastore, subito fuori città, o cagnolini diventati di moda dopo che Cesare era tornato dall’Egitto [7], dei cosetti piccoli piccoli che erano di moda al momento in cui… tutto finì.
Eh sì. La città di cui eravamo fieri, quella che guardava i monti e il mare dal cuore pulsante del Foro, sparì. Era una giornata come tante, sotto la Dinastia Flavia. Quel vecchio soldataccio dell’imperatore Vespasiano era appena morto e suo figlio Tito era da poco salito al trono (fu un ottimo imperatore, ma sarebbe durato poco, due anni appena. Ma noi non l’avremmo mai saputo). Avevamo già avuto delle avvisaglie, sotto il regno di quel pazzo di Nerone, diciassette anni prima. Un terremoto che aveva portato danni seri agli edifici. Ma la gente di qui ha sempre avuto a che fare con fenomeni di questo tipo: quasi tutte le murature erano già state riparate, anche se in alcuni punti della città ancora erano visibili dei restauri.
E poi… all’una del pomeriggio [8], un boato, il buio, la polvere: un’enorme nube si innalzava dal monte a Nord di Pompei. E dopo poco, iniziarono a cadere piccole pietre dal cielo, leggere a smuoversi, ma tante, tante… quelli di noi che si coprirono la testa con ripari di fortuna e iniziarono a correre fuori dalla città, verso il mare, ebbero maggiori probabilità di sopravvivenza.
Ma chi decise di rimanere non ebbe scampo.
Molti, terrorizzati, si rifugiarono nelle case e morirono quasi subito, uccisi dal collasso dei tetti sotto il peso delle pomici. Altri attesero, rimanendo intrappolati dall’enorme coltre che seppellì tutti i piani terra. Furono diciotto ore di terrore, una notte infinita. Ma allo spuntare del nuovo giorno, un momento di tregua. Tutto sembrava finito, e chi poteva ancora uscire dalle case, attraverso le finestre e i balconi, iniziò a correre per le vie della città, irriconoscibile.
Non sarebbe durato a lungo, questo momento di tregua: dal Vesuvio, di lì a poco, si sarebbe originata una delle cose più terribili che la natura possa creare: voi la chiamate ‘corrente piroclastica’, per noi fu una nube velocissima e violentissima che ci avvolse. Non rimase più nessuno di vivo in città.[9]
Pompei viene portata di nuovo alla luce da tre secoli, ormai: i nostri corpi, quando possibile, forniscono lo stampo per una colata di gesso che ricreerà le nostre fattezze in vita, i nostri abiti, i nostri oggetti: è il lascito di uno degli archeologi più appassionati fra quelli che hanno calcato la nostra terra [10]. Quando le condizioni non permettono la creazione di un calco, mani amorevoli ci raccolgono e ci studiano, e i dati che provengono dalle nostre spoglie mortali arricchiscono la vostra conoscenza del passato.
È stata una sorte strana e terribile la nostra. Eppure, nel vedere le strade della nostra città ancora piene di vita, nell’ascoltare i mille dialetti locali e stranieri che si mescolano nel Foro, sembra che nulla sia cambiato, e che Pompei sia sempre la stessa: sta solo vivendo una seconda vita, e anche noi siamo parte di essa…”.
Valeria Amoretti è Funzionario antropologo, Responsabile del Laboratorio di Ricerche Applicate, Parco Archeologico di Pompei
[1] Analisi genetiche sui resti degli abitanti di Pompei sono attualmente in corso nell’ambito di una convenzione fra il Parco Archeologico di Pompei e il Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze. Ciò che viene riportato nella fabula sono suggestioni personali, e ogni spunto in corso di studio in essa contenuto verrà valutato sulla base dei risultati e delle evidenze oggettive e sarà oggetto di pubblicazioni scientifiche.
[2] Il rapporto fra città e mare è fra le linee di ricerca condotte dal geologo afferente al Laboratorio di Ricerche Applicate del Parco Archeologico, Vincenzo Amato.
[3] Nuovi e più approfonditi studi sul garum sono in corso all’interno del Laboratorio di Ricerche Applicate di Pompei, a cura di Chiara Corbino, archeozoologa del Parco Archeologico afferente al Laboratorio di Ricerche Applicate.
[4] Secondo la ricetta riportata da Apicio e Catone (Apic Ars 1,5; Cato, De Agr. 109) i legumi, interi o macinati, venivano utilizzati per correggere colore e sapore del vino. L’evidenza di questa pratica è stata riconosciuta all’interno del termopolio della Regio V,3,I – scavato interamente nel 2020 – da Chiara Comegna archeobotanica del Parco Archeologico interna al Laboratorio di Ricerche Applicate, responsabile anche della ricerca bibliografica.
[5] Le iniziali stime relative a 25.000-20.000 abitanti sono state rivalutate in 12.000-16.000 unità (L. Gallo, Pompei: demografia di una città romana, in P.G. Guzzo, M. Mastroroberto, A. D’Ambrosio (a cura di), Storie da un’eruzione: Pompei Ercolano Oplontis, Electa, Milano 2004, pp. 15-18.
[6] Una revisione degli equini a Pompei è in corso a opera di Chiara Corbino con la collaborazione di Chiara Comegna. Un intervento sul tema è stato appena presentato al 3rd ICAZ Working Group Meeting on the Zooarchaeology of the Roman Period Animals in the Roman Economy: Production, Supply, and Trade within and beyond the Empire’s Frontiers’ (C.A. Corbino, C. Comegna, V. Amoretti, M. Osanna, Equine Exploitation at Pompeii, AD 79).
[7] Spunto derivante dagli studi – ancora in corso – di Chiara Corbino relativi a un cane di piccola taglia rinvenuto sempre presso il termopolio RV,3, I.
[8] Cronologia secondo H. Sigurdsson, S. Carey, W. Cornell, T. Pescatore, The Eruption of Vesuvius in A.D. 79, in “National Geographic Research”, 1, 1985, pp. 332-387; G. Luongo, A. Perrotta, C. Scarpati, Impact of 79 AD Explosive Eruption on Pompeii I: Relations amongst the Depositional Mechanisms of the Pyroclastic Products, the Framework of the Buildings and the Associated Destructive Events, in “Journal of Volcanology and Geothermal Research”, 126, 2003, pp. 201-223; G. Luongo, A. Perrotta, C. Scarpati, E. De Carolis, G. Patricelli, A. Ciarallo, Impact of 79 AD Explosive Eruption on Pompeii II: Causes of Death of the Inhabitants Inferred by Stratigraphical and Areal Distribution of the Human Corpses, in Journal of Volcanology and Geothermal Research, 126 (2003), pp. 169-200.
[9] Il Parco Archeologico da poco può avvalersi della presenza di un vulcanologo interno al Laboratorio di Ricerche Applicate, Domenico Sparice, che è impegnato anche nel censimento puntuale delle sezioni relative ai depositi vulcanici del 79 d.C. al fine di una loro organica conoscenza, tutela e valorizzazione.
[10] Cfr. M. Osanna, “Rapiti alla morte”. I primi calchi delle vittime di Pompei realizzati da Giuseppe Fiorelli, in M. Osanna, R. Cioffi, A. Di Benedetto, L. Gallo (a cura di), Pompei e l’Europa. Atti del Convegno, Electa, Milano 2016, pp. 144-161.