Pompeii Commitment
Simone Forti. Una raccolta di materiali relativi alla trasmissione del mio lavoro
Commitments 33 04•11•2021Introduzione
di Elena Magini
Senza Fretta, prima mostra di ampio respiro di Simone Forti in un museo italiano co-curata con Luca Lo Pinto, è stata concepita come un focus sulla pratica ibrida dell’artista, la cui ricerca si muove tra danza, film, disegno, suono e scrittura, attraverso uno sguardo politico e al contempo personale.
Nota a livello internazionale e figura chiave nello sviluppo della performance dalla fine degli anni cinquanta a oggi, Forti porta avanti un lavoro fondato sull’esperienza, sul movimento, sulla capacità di improvvisazione del corpo in relazione al linguaggio e agli oggetti. In particolare è l’espressione fisica praticata attraverso la danza – una danza radicalizzata in movimenti primari e gesti quotidiani – a costituire la chiave fondamentale del suo lavoro.
Durante tutta la durata della mostra al Centro Pecci sono state riattivate a cadenza settimanale alcune delle performance più conosciute dell’artista (Cloths, 1967; Sleepwalkers, 1968; Scramble, 1970), assieme a lavori messi in scena per la prima volta in questa occasione (Song of the Vowels, 2012; Rollers, 1978–2021). Le pièce sono state eseguite da un gruppo di performer eterogenei per età, genere, provenienza e formazione, selezionati e formati per la mostra da Sarah Swenson, storica allieva e collaboratrice di Simone Forti.
La veicolazione dell’esperienza performativa, e quindi l’insegnamento tramite workshop e laboratori, è un elemento fondamentale della pratica dell’artista, che intende la rimessa in scena delle proprie performance come una “trasmissione di conoscenza tra corpi”. Il reenactment delle performance pone costantemente questioni ontologiche relative a originalità, trasmissione, temporalità dell’opera; nella pratica di Simone Forti la riattivazione delle performance le rende un “organismo dinamico” che rimane attivo nel tempo e accessibile a una comunità mutevole; il museo, pur nell’atto singolare di una mostra, diviene una sorta di garante della veicolazione del lavoro, un attivatore rispetto alla comunità specifica che si crea attorno all’opera e un mezzo di documentazione volto alla creazione di un archivio vivente della performance.
Senza Fretta,
note di Luca Lo Pinto
Titolo della mostra
Il titolo della mostra di Simone Forti al Centro Pecci di Prato, Senza Fretta, è nato quando sono andato a trovare Simone a Los Angeles per discutere dell’evento. Sapendo che Simone spesso sceglie i titoli aprendo a caso un libro di poesie di William Carlos Williams, le ho chiesto se potevamo usare lo stesso metodo per trovare il titolo di questa mostra. Quindi, aprendo a caso le pagine, ha messo il dito su queste parole che tradotte in italiano sono “senza fretta” e ci è sembrato immediatamente un titolo ideale.
Linguaggi espositivi
La pratica di Simone Forti e tutto il suo lavoro non sono immediatamente traducibili nel linguaggio classico di una mostra e di conseguenza lo mettono in discussione. Simone è un’artista fuori formato. Presentando la sua ricerca in modo letterale si rischia di farne perdere la vitalità del linguaggio e delle modalità in cui si esprime. Prima di tutto con Simone abbiamo ragionato sull’opportunità di fornire uno sguardo diverso sul lavoro, usando News Animations (1980–in corso) – che non è solo una serie di opere ma corrisponde a una vera e propria pratica – come una sorta di cavallo di Troia per guardare a tutta la sua ricerca in un senso più generale. Abbiamo anche risposto alle specificità dello spazio espositivo per rendere la mostra performativa, come fosse un live che però non è costante, in quanto l’altra dimensione della mostra è definita dalla compresenza di video, disegni, opere su carta. In tale ottica abbiamo lavorato molto sul suono.
Suono e video
Il suono è l’elemento che fa da filo rosso per l’intera mostra. È una traccia sonora pensata appositamente per questo progetto, costituita da un collage di esperimenti che Simone Forti ha realizzato negli anni: registrazioni di strumenti, canzoni e letture di un libro autobiografico. Il tentativo è stato cercare di rendere la mostra esperienziale e immersiva. I video stessi sono proiettati seguendo l’architettura dello spazio al fine di integrarsi nel modo più naturale possibile. Il Centro Pecci è tutto curvilineo, in esso non c’è nulla di funzionale o di regolare. Di conseguenza l’unica chiave era muoversi in risposta alle sue specificità.
Ruolo della parola
L’uso della parola e l’attenzione critica al linguaggio sono essenziali nella pratica di Simone Forti e in particolare in News Animations. Le prime performance, le Dance Constructions (1960–1961), erano il tentativo di produrre un’ibridazione tra il corpo, il movimento e la scultura. In News Animations, una serie iniziata a metà degli anni ottanta, l’utilizzo della parola diventa più esplicito in una ricerca verso un linguaggio espanso. Le News Animations – sia nei disegni, dove la parola appare in una forma sempre suggestiva, che nelle performance – traggono ispirazione dalla lettura delle notizie pubblicate sui giornali. Prendendo spunto dagli headlines o dagli articoli, l’artista attiva una catena di associazioni in cui la parola e il movimento diventano strumenti che, nella loro commistione, producono un modo preciso di lavorare in reazione a quanto è stato letto e condiviso. Non si tratta semplicemente di una serie di opere, ma di una vera e propria pratica sviluppata inizialmente all’interno dei laboratori e workshop che Simone ha tenuto in quegli anni e che ha continuato a seguire.
Simone Forti e la sua influenza
Riassumere la ricerca di Simone Forti non è semplice e cercare di sintetizzarla in un modo lineare andrebbe contro allo spirito che la anima, in quanto è un lavoro poetico che si presta a essere letto da tutti in modo eterogeneo. Questo è l’aspetto più coinvolgente, soprattutto quando si ha la fortuna di assistere alle performance dal vivo. La mostra al Centro Pecci, focalizzandosi sulla serie News Animations, fa emergere una dimensione più politica e sociale – sebbene non militante – della pratica di Simone Forti che non era stata ancora esplorata nonostante sia presente fin dagli esordi. Pensiamo a una performance come Huddle (1961), che in mostra è presente come video, in cui un gruppo di 6/7 performer crea una sorta di struttura, che è costantemente in movimento, interpretabile sotto tanti punti di vista diversi. Un’altra performance in mostra trae spunto dall’osservazione degli animali negli zoo: gli animali in gabbia sono confinati in uno spazio che li priva di libertà e movimento. Il ruolo di Simone nella storia dell’arte contemporanea è cruciale: se finalmente siamo giunti a una predisposizione da parte dei musei e del pubblico a linguaggi diversi da quelli delle arti visive è anche grazie a lei. Vedere figure che lavorano con il suono, la danza e immagini in movimento all’interno dei musei oggi è un fenomeno comune. In quest’ottica Simone è stata una delle figure che più hanno forzato i confini tra le discipline e lo ha fatto in un momento storico dove ciò non era assolutamente scontato. Oggi gode finalmente del riconoscimento che merita nonostante la comunità artistica fin dall’inizio ne abbia celebrato l’originalità. L’influenza di Simone è monumentale quanto apparentemente fragile ed effimero appare il suo lavoro.
Tematiche sociali
Le dimensioni politica e sociale nel lavoro di Simone sono presenti anche se mai in modo esplicito, perciò ritengo il suo lavoro profondamente poetico. Basta guardare i video di News Animations. Le notizie che sceglie di attivare sono sempre connesse ai temi della guerra, del cambiamento climatico, dei conflitti razziali, coprendo l’arco temporale di questi ultimi quarant’anni, passando dalla guerra fredda fino ai conflitti attuali. L’idea di attivare le news è un invito a usare il proprio corpo per esprimersi in modo libero invece di accettare passivamente quanto ci viene comunicato, soprattutto oggi, considerando le limitazioni della libertà di stampa e il proliferare delle fake news.
Rapporto con i giovani e legacy
Nel corso della sua vita Simone Forti ha sempre insegnato, intessendo relazioni tra diverse comunità e generazioni. Nonostante le opere esposte appartengano a diversi momenti, tutti i lavori sono accomunati da una stessa vitalità, in particolare le performance che ormai non sono più eseguite da Simone, ma da altri danzatori attraverso una sorta di tradizione orale. Vi è un aspetto gioioso e al contempo di messa in discussione dell’idea stessa di danza e di movimento, ma anche dell’idea di scultura, che attraversa e incarna tutta la poetica di Simone. Il suo è un approccio profondamente personale, influenzato dal dialogo con altri artisti. Fin dall’inizio Simone infatti ha collaborato con musicisti, registi coreografi, danzatori, come Charlemagne Palestine, Peter van Riper o Hollis Frampton. La pratica di Simone si scontra con tutti i paradigmi sia della storia dell’arte che del sistema dell’arte, mettendoli in crisi. Basti pensare alle riflessioni che scaturiscono quando una ricerca del genere entra nella collezione di un museo, costringendo l’istituzione a una radicale auto-interrogazione in quanto sfugge alla convenzionalità dell’opera d’arte tradizionalmente intesa.
La mostra al Centro Pecci
L’interesse di Simone Forti non è mai stato indirizzato al produrre oggetti, ma al lavorare criticamente con il movimento in una forma espansa. Per tale ragione Simone si è confrontata raramente con il linguaggio espositivo ed è solo negli ultimi 10-15 anni che ha cominciato a esporre in modo più continuativo in musei e gallerie seppur raramente con un suo coinvolgimento diretto. In questo caso ci tenevo che fosse coinvolta nell’ideazione fin dall’inizio anche se poi, per motivi di salute, non è potuta essere fisicamente al museo. Rispetto alle mostre precedenti – in particolare quella più onnicomprensiva del 2014 al Museum der Moderne Salzburg intitolata Thinking with the Body: A Retrospective in Motion – quella al Centro Pecci non è una retrospettiva, ma tenta di adattare il medium espositivo all’approccio di Simone senza snaturarlo cercando di mantenere una dimensione performativa, facendo sì che l’elemento del liveness possa essere applicato insieme al linguaggio dell’opera, della mostra e del museo.
Senza Fretta,
note di Sarah Swenson
Un’artista del movimento
Penso che la maggior parte di noi abbia un’idea tradizionale di che cosa sia un coreografo; così se dici, per esempio, di Simone Forti che “lei è una coreografa”, la gente immagina che lei crei passi specifici che devono essere fatti in un certo modo, e ciascuno deve essere molto preciso nel modo in cui li esegue, i passi devono essere gli stessi ogni volta (è lo stereotipo del coreografo, come è stato forse nel passato. Oggi la definizione del coreografo sta cambiando). Questo tipo di coreografia non è ciò che Simone fa. Perché esistono tantissimi tipi diversi di movimento, non c’è solo il movimento del corpo; il movimento delle stoffe è il movimento dell’opera Cloths (1967), per esempio. Quindi un’“artista del movimento” non crea movimenti esclusivamente per il corpo umano. Un altro esempio è Onion Walk (1961), in cui una cipolla è posta all’imboccatura di una bottiglia, germoglia e si autoalimenta finché la crescita verde diventa più pesante del bulbo, e cade. La caduta è movimento, ma lo è anche la crescita, l’invisibile, lento progresso. Simone scrive, e scrivere è anche una forma di movimento. Per questo Simone Forti definisce se stessa come un’“artista del movimento”.
Fonti d’ispirazione
Le fonti per le opere di Simone Forti sono proprio varie. Possono essere un sogno, un ricordo, un desiderio e così via. Per esempio, Huddle (1961), che Simone ha creato quando è tornata dalla California, dove era stata sul dance deck di Anna Halprin, a stretto contatto con la natura, con gli alberi, l’acqua e i fiumi… arrivando a New York non si trova nulla di simile, è tutto cemento. Io penso che lei avesse solamente il desiderio di utilizzare il suo corpo – voleva un monte da scalare –, e utilizzava quello che aveva a disposizione. Quindi, nel creare Huddle, una scultura fatta con i corpi umani che a turno si arrampicano l’uno sull’altro, ha dato sfogo a un desiderio, un desiderio fisico da soddisfare. Sappiamo che Cloths deriva invece da un sogno che ha avuto, in cui qualcuno le ha detto “vai via” e lei non voleva andare, per questo motivo nella performance si era nascosta dietro a una tenda. Un altro esempio: mi ha raccontato che quando ha creato Hangers (1961) era depressa, ma per restare presente, sentire il suo peso e la sua massa bastava.
La collaborazione per la mostra
Condurre l’installazione insieme, come è avvenuto al Centro Pecci di Prato, ha richiesto la collaborazione tra i curatori, i rappresentanti di Simone, Simone stessa e i rappresentanti di un museo come il MoMA, che è prestatore della mostra, in base al pezzo da creare. Il coinvolgimento dipende da molti fattori. Penso che la collaborazione sia la cosa primaria, perché ci sono diverse idee tra cosa Simone vuole, quello che i curatori vogliono, cosa può essere effettuato in realtà. Per esempio, all’inizio volevano alcune Dance Constructions (1960–1961) per l’installazione a Prato, ma ciò non era possibile a causa della pandemia, quindi ci serviva flessibilità per creare qualcosa di nuovo. Le cose cambiano continuamente, è stato un lungo processo di dare-avere e, quindi, di collaborazione.
Il ruolo della musica
Il ruolo della musica nei lavori di Simone Forti non è lo stesso per ogni opera. Lei ha fatto opere in cui, nonostante non ci siano elementi audio intenzionali, si genera suono, e altre in cui il suono è stato pensato con uno scopo preciso. Per esempio, in Slant Board (1961) l’azione è legata all’arrampicata con corde, e quando una corda è rilasciata, questa sbatte su delle tavole di legno, creando un suono particolare. La performance non era stata creata per il suono, eppure il suono è molto presente. In Accompaniment for La Monte’s 2 sounds (1961) e La Monte’s 2 sounds (1961), invece, lei ha sentito la musica e ha deciso di fare qualcosa di molto semplice che la accompagnasse. La musica è una cacofonia, ma l’opera in sé è molto statica. Simone voleva che la gente prima di tutto ascoltasse la musica, perciò il performer resta immobile e non fa nient’altro che ascoltare, così il pubblico è invogliato ad ascoltare a sua volta. Un altro esempio di opera la cui ispirazione centrale è stata la musica è Scramble (1970), in cui risuona il rumore dei passi di chi sta performando. L’intenzione non è la stessa ogni volta; nell’audio di Cloths (1967), oltre alla voce registrata, a volte c’è un “whoosh” quando la stoffa viene gettata in avanti. In Platforms (1961), da Dance Constructions, i performers fischiano, il suono ha una intenzione, ma non è l’unico elemento. In Censor (1961), anche questo parte di Dance Constructions, invece il suono è primario. Simone è davvero poliedrica, non fa una cosa sola, ma unisce suono, movimento, scrittura.
L’imitazione del comportamento degli animali
Sappiamo che Zoo Mantras (1968–2010) deriva dall’abitudine di Simone di osservare gli animali. L’orso per esempio: quando abbiamo lavorato su questo progetto, abbiamo cercato di agire seguendo il comportamento dell’orso, oppure un elemento del comportamento dell’orso. La maggior parte di noi però gli orsi li ha visti solo allo zoo, quindi a volte guardavamo video degli orsi nel bosco. Emulate è la parola migliore per descrivere il nostro modo di procedere, emulare l’animale. Proviamo a impersonare il comportamento fisico delle creature, ma allo stesso tempo si tratta di un’astrazione, perché noi non siamo quegli animali, ma cerchiamo di far emergere l’essenza dei loro movimenti, delle loro attività, possiamo solo approssimare.
Le Dance Constructions: l’origine, non la sintesi
Le Dance Constructions non costituiscono la sintesi delle opere di Simone. Sono state piuttosto il primo lavoro che ha creato e da cui ogni altra cosa è emersa. Probabilmente è la sua opera maggiormente conosciuta nel mondo, ma in nessun modo costituisce la totalità del suo lavoro. In parte perché sono una creazione unica. Non c’è nulla come le Dance Constructions: sono opere di scultura e movimento allo stesso momento, esistono sia nel tempo che nello spazio. Simone le ha prodotte molto presto nella sua carriera, all’inizio degli anni sessanta; dopo di loro sono seguite molte altre cose geniali e originali… Vorrei anche aggiungere che non parliamo abbastanza delle qualità di Simone come performer, un aspetto molto importante del suo talento.
L’ispirazione per Dance Constructions
Potrei rispondere a una domanda sull’origine delle Dance Constructions solo in parte. Mi ricordo che all’epoca Simone era sposata con Bob Morris e vivevano insieme a New York. Per Simone non era chiaro chi influenzasse chi in quella situazione. Simone aveva un quaderno, dove disegnava le sue idee; aveva disegnato una tavoletta inclinata con un angolo di 90 gradi cui erano appese delle corde. Aveva avuto l’idea di qualcosa di concreto – il legno e la corda –, ma non sapeva come realizzarlo. E Bob disse: “Li farò per te”, e fece pezzi usando legname trovato per strada. Ho nella mia mente l’immagine di Simone seduta sul letto a disegnare. Individuare la fonte della creatività è veramente difficile. Quando un’idea ti viene in mente e la gente chiede “come ti è venuta quest’idea?”, non puoi sempre specificare. Qualche volta, come in Cloths, l’origine è un sogno specifico, ma la maggior parte delle cose emergono dalla nostra mente, senza sapere di preciso da dove. Penso che l’origine delle Dance Constructions sia da ricercare, da una parte, nella partenza dalla California rurale del nord e nell’arrivo a New York, una città nuova, e dall’altra parte, nel voler usare il proprio corpo. Arrampicarsi con una corda e sentire il tuo corpo, trattenerlo per dieci minuti… si tratta di un grande sforzo, ma uno sforzo serio, con una grande ambizione, quella di radicarsi. E una volta stanco, tu riposi, e sei fondamentalmente vivo.
L’elaborazione di Sarah Swenson di News Animations
Ogni News Animation (1980–in corso) è differente, dipende da chi la fa, dal luogo in cui siamo e dall’epoca in cui ci troviamo. Tuttavia, le News Animations sono sempre politiche. In questo caso stavo pensando all’anno passato, al significato della storia degli Stati Uniti e a come siamo finiti nella situazione attuale. Non è un’idea nuova per me, ma significa che adesso più che mai dobbiamo guardarci indietro per dire (molto in ritardo comunque, secondo me): “Quello che è successo non era giusto”. Ci sono moltissime cose che dobbiamo affrontare, come potete vedere, siamo un paese diviso: metà di noi non vuole riconoscere e accettare la nostra storia sanguinosa, l’altra metà pensa che dobbiamo fare qualcosa “ORA”. Nella mia riflessione, ho fatto la cronologia che ci porta dal 1492 al 2021, scrivo pensieri, leggo, ho trascritto fatti, letture, li ho mischiati…
Il rapporto con gli spettatori
Questa è la domanda più semplice che mi hai fatto finora! Penso che la ragione per cui le opere di Simone attraggono gli spettatori sia perché essi le riconoscono come qualcosa che hanno fatto, che stanno facendo, o che possono fare. Per esempio, in Scramble (1970) i performer sono semplicemente persone che camminano e corrono. Molte altre performance di Simone contengono attività quotidiane, come camminare, correre, cadere, arrampicarsi, appendere, parlare… non è una ballerina che esegue virtuosismi che nessuno può fare. Il virtuosismo è inteso in un altro modo nelle opere di Simone. Fare queste semplici azioni significa che dobbiamo lasciare andare molto di ciò che ci è stato insegnato e compierle in modo naturale, più similmente a come fanno ai bambini… camminare normalmente, correre normalmente, parlare normalmente. La cosa più difficile per alcune persone, specialmente per i ballerini addestrati, è lasciare andare la loro tecnica e fare queste cose in modo molto ordinario e semplice. Non c’è allenamento, l’allenamento è lasciar andare l’allenamento!
Reenactment: un approfondimento in chiave pompeiana di Stella Bottai
Nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, la mostra personale di matrice retrospettiva di Simone Forti, Senza Fretta, offre un’occasione di confronto sul tema del reenactment – un termine che nel linguaggio specialistico dei performance studies è preferibile alle sue possibili traduzioni in italiano, quali “ricostruzione” o “rievocazione”, in virtù della presenza centrale dell’“act” nella composizione etimologica. Una serie di actions – azioni, movimenti, eventi effimeri la cui materia è il tempo e lo strumento il corpo – è infatti il fulcro della relazione di studio critico e scientifico approfondito che il reenactment instaura tra una performance originale e le sue presentazioni ed esperienze successive.
Proponendo che sia possibile individuare un parallelo tra il reenactment performativo e la storia stessa di Pompei – che non è solo un luogo fisico fermo nel tempo ma è anche un insieme di azioni con cui entriamo in contatto dopo duemila anni dall’eruzione e che rinnovano quotidianamente il sito – Pompeii Commitment si interroga sulle modalità e sugli effetti di quel prefisso re/ri che, come una scintilla – o, meglio, come un lapillo vulcanico –, avvia un corto circuito temporale tra passato e presente, tra originale e copia, fra autore e interprete.
Come spiegano Martha Buskirk, Amelia Jones e Caroline A. Jones, re/ri è un “infinitely flexible and loaded prefix”1 (“un prefisso infinitamente flessibile e carico di significato”) che disloca la nostra esperienza dell’opera d’arte nella strana direzione di una sua possibile riproduzione (“re-create”), e che può scuotere ogni senso di familiarità in un nuovo contesto (“representation”).
Il reeneactment delle performance di Forti all’interno di Senza Fretta diventa in questo senso un case-study, affrontato coralmente nelle pagine a seguire: un nuovo video documenta Simone Forti mentre condivide una serie di riflessioni inedite sulla trasmissione della sua ricerca e delle sue opere, accompagnate da due nuove interviste a Sarah Swenson, collaboratrice dell’artista, e Luca Lo Pinto, co-curatore di Senza Fretta.
Come afferma Forti stessa: “È difficile essere reali”.
1 M. Buskirk, A. Jones, e C. A. Jones, “The year in ‘re’”, in Artforum, dicembre 2013.
https://www.artforum.com/print/201310/the-year-in-re-44068 (ultimo accesso 3 novembre 2021)
Andrea Viliani intervista Sarah Swenson
In base alla sua pluriennale esperienza e collaborazione con Simone Forti, ci può raccontare come si struttura, e di cosa necessita praticamente, il reenactment di un’azione performativa dell’artista?
Posso dire che molto di ciò che capisco o so del lavoro di Simone è stato assorbito da me nel tempo, negli ultimi 24 anni. In altre parole il processo di “insegnamento” o “apprendimento” delle opere singole o collettive non riguarda tanto il concetto di istruzione, quanto quello del fare. Inoltre, molto di ciò che “conosco” l’ho compreso attraverso la nostra profonda amicizia e il dialogo, piuttosto che attraverso il lavoro in studio.
Parlerei innanzitutto delle News Animations (1980–in corso), che sono diverse dagli Zoo Mantras (1968–2010), e naturalmente molto diverse dalle Dance Constructions (1960–1961). Ho avuto due conversazioni separate con Raffaella e Luca, entrambi avevano la stessa cosa in mente: la trasmissione. Ho detto a Luca che le News Animations, per esempio, non erano mai state insegnate. Perché le News Animations non sono un’opera, sono una pratica. Simone non mi ha mai detto: “Ecco come si fa una News Animation“.
Negli anni in cui ho studiato e lavorato insieme a Simone, abbiamo realizzato innumerevoli improvvisazioni utilizzando molte partiture diverse: per partiture intendo un paio di semplici regole che conferiscono all’improvvisazione un minimo di struttura. Molte di queste improvvisazioni prevedono il parlato e il movimento. A una di queste pratiche ha dato il nome di “logomozione”, ossia le parole emergono dai movimenti. Ma ho sentito dirle che non voleva che la logomozione fosse una “cosa”, non voleva etichettarla o che diventasse una tecnica codificata. Direi che una News Animation è una forma di logomozione anche se la pratica delle News Animations ha un’origine specifica, legata al fatto che suo padre leggeva il giornale per tenersi informato sugli avvenimenti, quando vivevano ancora in Italia. Così più tardi anche lei prese l’abitudine di leggere il giornale e dopo la morte di Mario, suo padre, sentiva quasi l’obbligo di farlo. Quindi le News Animations sono diverse essendo in qualche modo collegate alla politica, fanno riferimento all’attualità, con una componente storica, a volte frammista alla vita quotidiana, mentre non è detto che la logomozione riguardi qualcosa in particolare.
Quali elementi si conservano dell’azione storica, e quali mutano?
Il processo preparatorio tipico di Simone prevede, o in alcuni casi ha previsto, dei momenti di scrittura immediatamente prima di una performance, cosa che facevo anch’io anni fa; mentre ultimamente annoto pensieri e osservazioni su un arco di tempo più lungo.
Non posso dire che vi sia un modo ben definito per avvicinarsi a una News Animation, né un modo “corretto” di eseguirla o prepararsi a farlo, ed è possibile, anzi molto probabile, che chiunque di noi le realizzi adatterà la pratica in qualche maniera. Ciò che non cambia è l’intenzione di illustrare una situazione politica di attualità utilizzando il movimento e il linguaggio. Spesso, ma non sempre, all’evento viene portato un “oggetto arbitrario”. Inizialmente Simone lavorava con i quotidiani ma, quando non li aveva con sé, utilizzava un oggetto arbitrario. Io portavo un grande pezzo di tessuto. In tutti i lavori di Simone realizzati da altri, ciò che muta è sempre lo stesso elemento: essi sono costantemente modificati dall’individuo, dall’ambiente, dalla cultura in cui avviene la performance. I quotidiani non hanno smesso di essere importanti per Simone, come si può vedere, per esempio, nelle Zuma News (2014).
In che termini si è svolta, e si svolge tutt’ora, la collaborazione dell’artista al reenactment delle sue azioni performative? Quanto margine di interpretazione e di improvvisazione è invece riservato a lei, ai suoi collaboratori e ai performer?
Il concetto di reenactment non è il modo giusto di definire ciò che fanno i collaboratori di Simone nelle Animations, se non altro perché, una volta effettuate, non vi è l’intenzione di ripeterle. Ognuna di esse è un nuovo originale. Invece per altri lavori, per esempio gli Zoo Mantras, abbiamo svolto delle prove piuttosto tradizionali, con modalità esecutive molto specifiche, durante le quali lei spiegava e dimostrava le qualità e l’energia dei movimenti di ogni animale e come dobbiamo esplorare, adattando i nostri corpi in modo da imitare quanto più possibile i loro movimenti, considerato che le nostre strutture corporee sono in genere molto diverse.
Altri lavori, come Scramble (1970), Rollers (1978–2021), Cloths (1967) e Song of the Vowels (2012), sono improvvisazioni, però hanno istruzioni specifiche che sono oggetto d’insegnamento e necessitano di una guida. Alcuni di questi, a volte, consentono libertà compositive.
Ritiene che, rispetto al valore tradizionalmente assegnato alla documentazione video-fotografica, la trasmissione orale e relazionale sia, nel caso di un’artista come Simone Forti, più rilevante quando si attua il reenactment delle sue azioni performative?
Sì. Non sono sicura che più rilevante sia il termine giusto, preferisco più importante per la sua capacità di trasmettere i valori di un certo lavoro di Simone. In passato si è discusso sul fatto che alcune sue performance possano o debbano essere insegnate tramite video, e adesso, anche su ZOOM; e ogni volta arriviamo alla conclusione che l’esperienza di insegnamento dal vivo, di persona, interpersonale non abbia solo una qualità superiore, ma sia anche necessaria.
Potremmo definire questi reenactment come “calchi” o “memoriali” delle azioni originarie, a sua volta definibili come “matrici” o “palinsesti”?
Questo non vale per le News Animations perché, come si è visto nella mostra presso il Centro Pecci, sono completamente diverse per tutte le ragioni che ho indicato sopra: non ri-creiamo o ri-mettiamo in scena una News Animation che si è già svolta in passato. Cerchiamo tuttavia di catturare l’essenza del flusso di coscienza, un pensiero che conduce all’altro, e la consapevolezza dell’attualità, che è in genere collegata ad alcuni aspetti storici, come lo è sempre la politica. Cosa accadrà alle News Animations in futuro?
Oggi sono portate avanti da alcuni suoi collaboratori storici. Alcuni di noi conducono dei workshop di improvvisazione in cui insegnano l’approccio di Simone al linguaggio e al movimento. Tuttavia occorre fare molta pratica e mi chiedo chi possa essere tanto determinato da riuscirci. Diventerò mai il mentore di qualcun altro?
Nel caso delle Dance Constructions c’è un rigore maggiore. Vi sono istruzioni specifiche per otto dei lavori che vengono insegnati, mentre uno di essi, See Saw (1960), non viene più insegnato ma ricreato ogni volta da un artista invitato, che può fare ciò che desidera con l’altalena (see saw, in inglese). Ognuna delle Dance Constructions ha due o tre istruzioni specifiche su come dovrebbero essere eseguite. Fondamentalmente non c’è spazio per la sperimentazione. Si tratta di improvvisazioni, ma all’interno di una struttura, quindi si possono eseguire determinate azioni, ma non in qualsiasi modo si voglia. Le regole sono studiate per raggiungere alcuni risultati: energie, atmosfere, ambienti, azioni, il tutto utilizzando soltanto i normali movimenti umani. Trovo molto interessante e ammirevole il fatto che le preoccupazioni dei nostri collaboratori più anziani cambiano così poco. La ricerca è infinita, non si esaurisce mai. Per esempio, gran parte del lavoro di Simone, in particolare le Dance Constructions, riguarda la gravità, il peso, il trasferimento del peso, le strutture. Ieri abbiamo realizzato un nuovo video con tutti i momenti della sua vita quotidiana riferiti proprio a queste cose. Mettersi in piedi, sedersi, trovare l’equilibrio, fare un passo, muovere gli oggetti, tirare, spingere. Adesso, il Parkinson influisce su tutti i suoi movimenti. Quindi la sua esperienza è diventata lenta in una maniera quasi glaciale, granulare, cellulare. Non smetto mai di imparare le stesse lezioni e tuttavia mi sembrano sempre nuove.
Può raccontarci qualcosa sulla sua esperienza, come si prepara, quali sono i sentimenti e le emozioni derivanti dalla decisione di ri-evocare le Illuminations di Simone Forti con Charlemagne Palestine presso il Centro Pecci?
È stata una sorpresa, e al tempo stesso sono stata felice e onorata di essere invitata a eseguire le Illuminations (1971) con Charlemagne. Non ci eravamo mai incontrati, ma ovviamente io avevo già visto le Illuminations. Il finissage è stato un vero e proprio tributo a Simone e mi ha fatto molto piacere il fatto che lei fosse lì ad assistere. È stata una grande sfida realizzare questa esposizione. Tutto è stato reso più difficile dall’emergenza Covid, dalle normative Covid, dall’annullamento delle Dance Constructions a causa del Covid, dei numerosi rinvii ecc. L’esposizione è stata in qualche modo rivisitata. Inoltre, cercare di eseguire le New Animations in italiano è stato molto stressante per me. Per questo eseguire Illuminations al finissage mi è sembrato così facile, naturale e piacevole. Forse vi deluderà ciò che sto per dirvi, ma a essere sinceri, non c’è stata preparazione, non abbiamo fatto delle prove per Illuminations. Capisco che alcuni spettatori possano essere increduli: se non si ha mai sperimentato l’improvvisazione, se non si ha avuto una vita piena di improvvisazione, deve sembrare impossibile compiere così tanti movimenti seguendo l’impulso e l’istinto, piuttosto che qualcosa di preparato.
Parlando con Simone il giorno del finissage, mi ha detto semplicemente ciò che già sapevo: “Inizia dai cerchi.” Non dovevo neanche pensarci. Nemmeno Charlemagne pensava in quel momento. Non avrebbe funzionato se qualcosa fosse stato già pre-determinato. Abbiamo solo lasciato che accadesse. Il modo migliore per spiegare tutto ciò è, semplicemente, poter dire Io capisco. Dopo tutti questi anni mi rendo conto che tutto si riduce a questo. E penso che ci voglia tempo per arrivarci. Adesso viviamo in un’epoca basata soprattutto sull’immediatezza e sull’istantaneità, sulla soddisfazione derivante da un click. Mi chiedo quanti giovani di oggi sarebbero disposti a trascorrere del tempo insieme a un mentore, a una persona anziana. Sono felice, onorata dalla fiducia che Charlemagne e Simone hanno riposto in me. Dopo la performance lei era davvero felice. La sua gioia significa tutto per me.
Andrea Viliani intervista Luca Lo Pinto
Perché è stato importante per te riattivare una serie di azioni performative di Simone Forti nella mostra personale al Centro Pecci?
Il lavoro di Simone è centrato sul movimento e ha una dimensione performativa molto importante, la mostra non poteva prescindere da tali presupposti. Con Simone abbiamo scelto di presentare delle performance meno viste rispetto alle più note Dance Constructions (1960–1961), in particolare: Song of the Vowels (2012), Cloths (1967), Scramble (1970), Sleepwalkers/Zoo Mantras (1968–2010) oltre che News Animations (1980–in corso) e una nuova performance intitolata Rollers (1978–2021). Song of the Vowels e Cloths sono caratterizzate dall’interazione tra movimento e suono ed esistono anche sotto forma di oggetti-props o disegni-partitura, che erano presenti in mostra. L’impossibilità da parte di Simone di essere fisicamente a Prato ha influenzato alcune delle decisioni prese. In occasione della mostra al Centro Pecci Simone ha scelto di affidare Zoo Mantras – in precedenza performate da Claire Filmon – per la prima volta a Sarah Swenson, sua stretta collaboratrice. Se le Dance Constructions sono lavori pensati già per essere performati da altri, per Song of the Vowels si tratta di una novità; a Prato si è creato un precedente che avrà una ripercussione sulla vita futura di queste opere. Le stesse News Animations sono quasi sempre perfomate da Simone, talvolta in collaborazione con altri performer. È stato un privilegio poter assistere in diretta alla rievocazione di alcune delle opere di Simone, e più in generale della sua pratica, materia realmente vivente, intrinsecamente performativa.
Come definiresti in termini critici e curatoriali il rapporto che si innesca fra l’azione originale e la sua riattivazione? Potremmo definire questi reenactment come “calchi” o “memoriali” delle azioni originarie, a sua volta definibili come “matrici” o “palinsesti”?
L’approccio di Simone Forti verso l’arte, la danza e il suo lavoro è anarchico e mette in crisi i parametri che di solito adottiamo per rapportarci a figure come lei. Il formato più vicino all’approccio di Simone è quello del workshop, un fare collaborativo che aziona una costante ri-attivazione delle tecniche di danza e movimento sviluppate da Simone. Mi piace la definizione di calchi di memoria rispetto alla riattivazione di azioni storiche. Sono calchi che si stratificano ogni volta fino a trasformare la matrice in qualcos’altro. Questo è un aspetto intrigante soprattutto rispetto alle conseguenze che provoca a livello storiografico, di collezione, conservazione e anche di mercato. Il fatto che poi Simone non si limiti a riprodurre qualcosa, ma talvolta a trasformarlo radicalmente, comporta ripercussioni ancora più drastiche straordinariamente affascinanti su un piano interpretativo. Rollers per esempio è una nuova performance che nasce da una tipo di movimento che è stato a lungo parte del vocabolario di danza di Simone, formando parte di diversi lavori nel corso degli anni. I performers lentamente si rotolano da un lato all’altro dello spazio ripetendo l’azione più volte. Al Pecci appare per la prima volta da solo, come un pezzo completo e autonomo sfruttando l’ampio spazio architettonico.
Più in generale che definizione daresti del “reenactment” di una performance (come sai questa è un’area estesa e articolata di riflessioni metodologiche, sia dal punto di vista artistico che curatoriale)?
Ogni reenactment implica un’azione di manipolazione della memoria, distaccandosi da un concetto di ripetizione o riproduzione. La possibilità di riattivare una storia e farla rivivere in una dimensione inedita è già implicita nella struttura concettuale della mostra. Se esponessi un quadro di Lee Lozano nello stesso spazio e sulla stessa parete dove fu esposto 40 anni fa, si parlerebbe di reenactment; se invece mi limitassi a esporre lo stesso oggetto nello stesso spazio ma in un punto diverso la mia azione evaderebbe da questa definizione. Il concetto di reenactment è applicabile tanto agli oggetti quanto ai non-oggetti (performances, partiture, concerti, proiezioni etc). Spesso si tende a considerare il reenactment come uno strumento scientifico per poter presentare opere storiche nel contesto delle mostre, tuttavia credo sia più interessante partire dall’assunto che non può esistere alcuna forma di oggettività quando un’opera d’arte è presentata in condizioni diverse rispetto a quelle dove è stata originariamente esposta.
Quali elementi innesca, secondo te, la riattivazione di un’opera del passato nella sua interpretazione da parte del curatore e nella sua esperienza da parte del pubblico?
Nel caso di questa mostra l’artista è vivente e ha partecipato attivamente alle decisioni riguardo alla presentazione di opere e performance storiche. Quando si lavora con artisti non viventi la responsabilità del curatore ha molto più peso. Su un piano squisitamente curatoriale trovo interessante coinvolgere altri artisti in questo processo di riattivazione poiché sono spesso in grado di offrire spunti interessanti, creando un ulteriore livello di interpretazione che prescinde da una desiderata e irraggiungibile oggettività/scientificità.
Nei tuoi progetti spesso lavori con materiali di documentazione e sulla dimensione dell’archivio, per attualizzarne senso e modalità di esperienza. Che ruolo hanno quindi nella definizione dei tuoi progetti, e in quello da te curato al Centro Pecci con Simone Forti, i materiali di documentazione e la dimensione dell’archivio? Potremmo dire che per te l’archivio, come la performance, è un campo di esplorazione su come attualizzare il passato e riportarlo a vivere nel presente, mettendo a punto dispositivi e metodologie specifici? Nel caso ci indicheresti quelli principali che hai adottato, e perché?
L’archivio è un deposito di memoria che sopravvive in forma orale, testuale, visuale e sonora. Anni fa, nel 2008, Okwui Enwezor organizzò una mostra intitolata Archive Fever che analizzava il modo in cui gli artisti contemporanei si appropriano e riconfigurano i materiali d’archivio con un focus specifico sulla fotografia.
A me piace poter confrontarmi con un archivio come fosse un’opera da poter reinterpretare e riattualizzare, trasformandolo da documento a materia viva. Animare l’inanimato ha qualcosa di alchemico e spesso è un viaggio immaginifico.
Per esempio nel 2019, in occasione di una mostra collettiva intitolata Time is Thirsty, mi ha interessato pensare alla mostra come fossimo nel 1992. Per l’occasione ho chiesto alla scent designer Sissel Toolas di ricreare l’odore di Vienna nel 1992 e ho selezionato degli articoli di giornali dell’epoca facendoli ridisegnare da un grafico come fossero odierni, rimuovendone la data. In questo caso l’archivio era il tempo stesso.
Quest’anno, in occasione di una personale dedicata al regista e attivatore culturale Simone Carella, ho proposto a due giovani filmmakers di lavorare sull’archivio personale di Carella, commissionando un video che fosse un ibrido tra un film e un saggio visivo.
A Prato, infine, è stata prodotta una traccia sonora che mettesse insieme un compendio di canzoni, opere sonore, reading di Simone.
Questi sono tre esempi di modalità di attivazione di un archivio, volti a performare la memoria.