Pompeii Commitment
Salvatore Settis, in conversazione con Chiara Costa. L’esposizione come Pathosformel
Commitments 22 10•06•2021L’esposizione
come
Pathosformel
Salvatore Settis in conversazione con Chiara Costa
Chiara Costa – Negli ultimi quindici anni lo studio della storia delle esposizioni come disciplina quasi autonoma rispetto alla storia e alla storiografia artistica ha subito una accelerazione notevole. In ambito contemporaneo, penso alle ricerche di Bruce Altshuler o alla collana “Exhibition Histories” di Afterall, centro di ricerca della University of the Arts London. Nel 2013 e nel 2018 con Germano Celant la Fondazione Prada ha lavorato proprio su questi temi, con la mostra-readymade che ricostruiva, in dialogo con Rem Koolhaas e Thomas Demand, When Attitudes Become Form (Berna, 1969) e con l’esposizione Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918–1943 che ripercorreva la storia delle esposizioni, e di riflesso il sistema artistico in Italia tra le due guerre. Anche le mostre da te concepite Serial Classic e Portable Classic (Fondazione Prada, Milano e Venezia, 2015) affrontavano una tematica affine, ovvero l’idea della creazione di un canone e della sua ripetizione. Nel tuo libro Futuro del “classico” (Einaudi, 2004), parli del meccanismo ritmico che dai frammenti del passato (il “pathos delle rovine”) fa scaturire la necessità di rinascere [1]. Pensi che questa perenne spinta evolutiva del classico – in sé una caratteristica estremamente contemporanea – possa essere approfondita e studiata in modo innovativo attraverso le esposizioni?
Salvatore Settis — La domanda che mi fai riguarda il tema del “classico”, ma va molto oltre. In questi ultimi decenni il numero delle mostre (anche di arte classica) è cresciuto in modo spesso malsano e pretestuoso, disseminando per il mondo un gran numero di instant shows senza un vero progetto intellettuale, che mettono inutilmente a rischio le opere costringendole a viaggiare, e lo fanno talvolta per soddisfare vanità o trame di politici o curatori di musei e mostre a corto di idee. Perciò la domanda di fondo è: vale la pena di fare mostre temporanee, tenendo conto dei costi che comportano e del margine di stress (che si può ridurre al massimo, ma è difficile eliminare del tutto) a cui le opere d’arte vengono assoggettate per il solo fatto di essere imballate e di viaggiare? Il mio punto di vista è che vale la pena di organizzare mostre temporanee a patto che esse rappresentino un vero acquisto di conoscenza, e non solo per gli specialisti di quell’ambito ma anche per ogni altro visitatore. Questo può accadere anche per mostre in cui il tema non sia (o non sembri) nuovo.
Quando Germano Celant ripropose con Koolhaas e Demand When Attitudes Become Form a Ca’ Corner della Regina, non fu certo per pigrizia (rifare una mostra già fatta) e nemmeno solo per un astratto omaggio accademico ad Harald Szeemann o alla Kunsthalle di Berna, ma per gettare sul piatto, con un gesto di forte impronta autoriale, una questione di metodo: è possibile ricostruire ‘archeologicamente’ una mostra importante, e che cosa vuol dire, in termini di impatto e di ricezione, riproporla tal quale quarant’anni dopo? Vien da pensare a un racconto morale di Jorge Luis Borges, Pierre Menard autore del Chisciotte (1939): Pierre Menard riscrive a fondo il Don Quijote, parola per parola, senza copiarlo, ma per “l’obbligo misterioso di ricostruire letteralmente la sua opera spontanea”. È un lavorio di anni, e ne escono solo alcune pagine, identiche a quelle del capolavoro di Cervantes, per esempio questa frase:” la verdad, cuya madre es la historia, émula del tiempo, depósito de las acciones, testigo de lo pasado, ejemplo y aviso de lo presente, advertencia de lo por venir” [la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e annuncio del presente, monito del futuro]. Identica la frase, ma che differenza di significato! “Scritta nel Seicento, – scrive Borges – quest’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Nel Novecento (l’epoca di Menard), l’idea che la storia è madre della verità ha un’implicazione nuova: comporta che la verità storica non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne”. Riproporre un testo (o una mostra) a distanza di tempo comporta conseguenze cognitive di grande rilievo: cambia la mostra, ma cambia anche la mente di chi la fa (o la rifà).
Germano ne era del tutto consapevole: quando stava cominciando a lavorare all’edizione veneziana di When Attitudes Become Form ne parlò una volta con me, e cominciò più o meno così: ho in mente una mostra archeologica, secondo te vale la pena di farla? ‘Archeologico’, o filologico, era infatti il metodo, il filtro per poter riproporre quella mostra trasformando se stessi, per così dire, in curatori di secondo grado (o meta-curatori), un’operazione intellettuale di grande interesse.
La distanza fra When Attitudes Become Form di Szeemann e quella di Celant è la stessa fra il Chisciotte di Cervantes e quello di Menard: la mostra di Venezia 2013 sembra la stessa di quella di Berna 1969, ma ha un significato radicalmente diverso.
Chiara Costa — Quando nel 2015 la Fondazione Prada ha inaugurato la nuova sede di Milano con Serial Classic, molti sono rimasti stupiti dal fatto che un’istituzione di arte e cultura contemporanea si svelasse al pubblico con una mostra di archeologia. Credo che per la fondazione sia stato un gesto programmatico, che dal dialogo con te ha tratto la fondamentale consapevolezza dell’importanza di mettere a confronto e integrare discipline diverse. Del resto, un elemento portante dell’operato di Rem Koolhaas e dello studio OMA nella progettazione del complesso è stata l’idea di “espandere il repertorio” delle tipologie spaziali in cui l’arte può essere esposta e condivisa. A questa scelta architettonica è corrisposto un ampliamento anche delle tipologie di contenuti che possono abitare lo spazio attraverso le esposizioni e i relativi allestimenti. Poco prima dell’inaugurazione, ricordo che abbiamo visitato insieme Defining Beauty: The Body in Ancient Greek Art, una mostra al British Museum che si proponeva di approfondire il “revival del corpo greco nell’era moderna”. L’allestimento utilizzava il contrasto tra la luce artificiale e il nero delle pareti, dando luogo a un effetto molto teatrale che al contrario in Serial Classic veniva sostituito da un display quasi en plein air. Poiché è innegabile che l’allestimento di una mostra sia uno strumento di comunicazione, qual era il messaggio che volevi trasmettere?
Salvatore Settis — Quel che mi ha indotto a immaginare Serial Classic era, mi pare, in sintonia con l’immaginazione esperienziale e l’intuito curatoriale di Germano Celant, ma partiva da una spinta iniziale del tutto diversa. Miuccia Prada mi aveva chiesto di immaginare una mostra di argomento greco-romano per l’apertura della nuova sede della Fondazione Prada a Milano, un’architettura di Rem Koolhaas, peraltro ancora da costruire. Mi sentivo libero nella scelta del tema, ma ritenevo necessario che esso doveva essere in armonia con la vocazione strettamente contemporanea del collezionismo Prada, e in armonia con gli spazi pensati da un architetto rigoroso e visionario come Rem. Perciò mi venne in mente di lavorare sulla serialità nella pratica artistica, tema che più contemporaneo non ce n’è, ma che già l’arte classica greco-romana aveva in altro modo affrontato. Gli archeologi classici lo sanno bene, ma gli altri raramente lo sospettano, dato che la cultrura main stream coltiva l’immagine tradizionale dell’arte classica come invariabilmente originale, unica, irripetibile.
Si trattava dunque di gettare un ponte fra lo studio delle copie da opere d’arte perdute, che è il pane quotidiano degli storici dell’arte classica, e un pubblico che per la più gran parte non ne sa nulla: gli archeologi lo ritengono un argomento per soli specialisti, e gran parte del pubblico non si rende conto che quando vede un Discobolo a Londra o a Roma non vede mai “il” Discobolo di Mirone, perduto senza rimedio, bensì una delle molte sue copie. Ma come mai se ne fecero tante copie? Come facciamo a sapere che sono copie proprio di quella statua? E come possiamo immaginare l’originale perduto, che nessuno ha visto negli ultimi quindici secoli? Domande a cui gli archeologi credono di saper rispondere facilmente (non è così), ma che possono venire in mente a qualsiasi spettatore attento. Il corto circuito fra due livelli di conoscenza diventava così la molla per immaginare percorsi narrativi, sfide espositive, grimaldelli cognitivi. Era un modo nuovo di parlare del “futuro del classico”? Non senza un po’ di presunzione, a me pare di sì. L’interazione con Rem Koolhaas era essenziale perché messaggi come questi venissero non solo veicolati, ma potenziati dall’allestimento. Con la mia co-curatrice Anna Anguissola (alla mostra parallela e “gemella” Portable Classic co-curatore era Davide Gasparotto) abbiamo sviluppato un fitto dialogo con Rem e i suoi collaboratori, sempre mediato dal team della Fondazione Prada, da Germano Celant, dalla stessa Miuccia Prada. Era come affrontare il Monte Bianco dai due versanti: da un lato una sensazionale architettura che prendeva forma coi suoi spazi perentori, le sue potenzialità espressive; dall’altro lato un’idea curatoriale che implicava una doppia sfida: mettere in discussione la pretesa irripetibilità dell’arte classica e gettare sul tappeto una questione irrisolta: la cultura e l’arte classica, che nella storia europea hanno giocato per secoli un ruolo determinante, possono aver cittadinanza anche oggi, domani, dopodomani? E come, e perché?
Lasciami usare per l’ultima volta la metafora del tunnel: ci siamo incontrati, scavando dai due lati, e abbiamo constatato gioiosamente (la parola è questa) che gli spazi pensati da Rem sembravano fatti apposta per accogliere Discoboli e Dorifori, Veneri e Satiri, facendoli dialogare fra loro e col pubblico. Un’idea geniale di Rem, abolire completamente il piedistallo delle statue che ne è la più abituale caratteristica museale, confermò pienamente fino a che punto ci eravamo intesi: io non ci avevo pensato, ma corrispondeva pienamente all’idea di de-classicizzare l’arte classica facendola “camminare” fra noi, per passare da una cieca e passiva ammirazione a una interrogazione creativa, per sua natura infinita e insoddisfatta, ma proprio per questo tanto più feconda.
Chiara Costa — La prima volta che ho associato il nome di Aby Warburg all’arte contemporanea è stato grazie al lavoro di Goshka Macuga, che oltre ad aver più volte omaggiato apertamente lo storico dell’arte tedesco, ha anche inglobato il procedere per immagini sperimentato in Mnemosyne nella sua pratica artistica (e curatoriale). Proprio come un sismografo, in grado di captare anche un terremoto che si svolge a centinaia di chilometri di distanza, e di cui nessuno degli esseri umani presenti nella stessa stanza si accorge. Warburg paragonava la sua ricerca a quella di Nietzsche e Burckhardt, “captatori delle onde mnemiche” e si descriveva quindi come un sismografo che riceveva segnali, e che avrebbe trasmesso i dati raccolti in una monumentale pubblicazione (realizzata solo nel 2020 dal Warburg Institute). Mi sembra che questa “metafora sismografica”, che tu hai più volte richiamato, si possa applicare senz’altro ad alcuni artisti-captatori e anche alla figura del curatore dunque al mestiere di fare mostre.
Salvatore Settis — Aggiungo a quanto hai detto che Warburg era molto interessato alla comunicazione mediante la mostra. La sua vita si svolse in un periodo (1866-1929) in cui la pratica delle mostre, per quanto già in vigore da tempo (si pensi al famoso libro di Francis Haskell sul tema, pubblicato in italiano da Skira), aveva ben poco a che vedere con quanto accade intorno a noi. Warburg non fu un collezionista dell’arte a lui contemporanea, ma nel 1916 comprò un quadro di Franz Marc di pochi anni prima, I cavalli azzurri, e lo appese nella sala d’ingresso della sua casa di Amburgo, come una sorta di manifesto delle proprie predilezioni. Quelli della prima guerra mondiale furono per lui anni di enorme sofferenza: nel conflitto fra le sue due patrie, la natia Germania e l’Italia degli studi, egli vedeva il crollo della memoria storica europea; e da questo conflitto nacque il disturbo mentale (diagnosticato prima come schizofrenia, poi come sindrome bipolare) che lo avrebbe tormentato per alcuni anni. Questo e non altro voleva dire la sua metafora sismica: nell’artista e nel filosofo come nello studioso di storia dell’arte (e, per estensione, nel curatore di mostre) egli vedeva – autobiograficamente – una sensibilità acutizzata dalle proprie necessità espressive, e perciò fortemente reattiva agli stimoli esterni, ma anche capace di cogliere nessi nascosti. Proprio come un sismografo, in grado di captare anche un terremoto che si svolge a centinaia di chilometri di distanza, e di cui nessuno degli esseri umani presenti nella stessa stanza si accorge. Ed ecco che quel quadro di Franz Marc, e per estensione la poetica del Blaue Reiter, gli appare (è un suo appunto di quegli anni) come un esempio, pari in questo a Dürer, di come la sensibilità artistica possa elaborare “figure interiori che riflettono una necessità di natura”. Le tavole originarie di questo Atlante erano di dimensioni amplissime (solo da poco Monica Centanni è riuscita a ricostruirne le dimensioni originarie, e ne parlerà presto nella sua rivista online Engramma), concepite quasi – diremmo oggi – come altrettanti poster da mettere in mostra in una sede accademica, come infatti Waburg fece in alcune conferenze a Roma e ad Amburgo. E quando, dopo la guerra e la malattia mentale, Warburg riprese vigorosamente il suo lavoro, lo intese come una cura non solo per sé ma per la crisi della civiltà europea, e perciò immaginò modalità di diffusione del proprio pensiero non solo fra gli specialisti (spesso riluttanti ad ascoltarlo), ma in un pubblico assai più vasto. Conferenza in circoli operai, mostre didattiche sull’astrologia e le relative immagini, e infine il pensiero di costruire un vero e proprio Atlante d’immagini per “mappare” la memoria figurativa delle civiltà europee: Mnemosyne. Negli anni in cui metteva insieme le tavole di Mnemosyne (un’opera rimasta incompiuta), la sua metafora preferita, quella del sismografo, si allargò fino a includere, come una missione di cui si sentiva egli stesso investito, la trasmissione di generazione in generazione di procedimenti cognitivi e percettivi affinati dagli studi storici e per questo affini a quelli degli artisti.
Le onde sismiche che lo studioso (il curatore?) accorto doveva saper registrare erano quelle delle formule di pathos che scompaiono come in un fiume carsico e tornano in luce secoli o millenni dopo grazie al fuoco segreto del loro contenuto espressivo. In quella successione di morti e rinascite il pathos dell’espressione artistica si fa (secondo Warburg) sempre più intenso via via che le Pathosformeln vengono rilanciate e rivissute come altrettanti sintomi di emozioni e condizioni che riguardano l’artista in questione e il suo tempo, ma anche lo storico che – “stazione captante” – entra con essi in sintonia.
Chiara Costa —A questa metafora sismografica sono dedicate alcune pagine del tuo ultimo libro Incursioni. Arte contemporanea e tradizione (Feltrinelli, 2020), che fra l’altro contiene un testo inedito dedicato al film di Ingmar Bergman Il rito (1967-1968), unico lungometraggio in cui il regista compare brevemente come personaggio. Alcune scene del film, il cui titolo rimanda sia al rito religioso che a quello teatrale, si incrociano con l’iconografia densa di suggestioni dionisiache del fregio della Villa dei Misteri di Pompei. Descrivi questa relazione tra l’affresco e il film come un “salto di genere” in cui, citando Sergej Ejzenštejn, ritornano “identiche formule che – a prescindere dalle persone, dalle epoche o dagli ambiti artistici – provocano una fondamentale esplosione estatica, su cui si basa l’effetto patetico dell’insieme [2]”. Una formulazione analoga al concetto warburghiano di Pathosformeln. E se guardassimo i fregi di Pompei con occhio cinematografico? Esistono dei limiti imponibili a una lettura multidisciplinare dell’antichità?
Salvatore Settis — Il fatto che Ejzenštejn, senza nulla sapere di Warburg, abbia coniato per suo conto, e in un’altra lingua (il russo) il concetto di Pathosformel è già una risposta. Il salto di genere, dall’affresco al cinema o alla videoarte, non è poi così diverso da quello dalla pittura alla scultura, alla medaglistica, alla fotografia. Quel che importa sono non solo e non tanto gli schemi iconografici, quanto il loro carico (o sovraccarico) emozionale ed espressivo. L’inattesa convergenza tra Warburg ed Ejzenštejn sull’idea di Pahosformel si spiega probabilmente con un background comune, le pratiche artistiche (dalla pittura al cinema, dal teatro alla danza) dell’espressionismo tedesco. Nel mio saggio su Bergman, che avevo lasciato a metà nel 1974 e ho finito di scrivere molti anni dopo in occasione di questo libro, lo scenario è determinato dall’ondata di “dionisismo” degli anni intorno al 1968, dagli Stati Uniti alla Svezia di Bergman all’Italia di Pasolini, ma anche da alcune domande banali e tuttavia inevase. Perché quei movimenti di liberazione, per esempio del costume sessuale, sentirono il bisogno di invocare le Baccanti di Euripide come una sorta di precedente? Come mai dura ancora la rinnovata fortuna di quella tragedia così terribile e cruenta, dove una madre fa a pezzi il proprio figlio? Certo, ho voluto stabilire un nesso fra un affresco della Villa dei Misteri di Pompei e un film svedese del 1968, e credo anche che quel nesso sia storicamente plausibile; ma ho provato a leggerlo, imitando Warburg alla debita distanza, come sintomo parlante di un lancinante impulso a costruire il nuovo facendo i conti con la storia: qualcosa che è più facile negare che spiegare. Questo e altri nessi visuali ed emozionali che ho cercato di evidenziare in Incursioni sono pensati come per comporre, in un esercizio euristico, qualche ipotetica tavola di Mnemosyne.