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© Pompeii Commitment. Archaeological Matters, un progetto del Parco Archeologico di Pompei, 2020. Project partner: MiC.
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Michael Rakowitz, con Marianna Vecellio. Seder for Pompeii

Commitments 36    25•12•2021

1. Testo:

Conversazione su un’eruzione
Michael Rakowitz in conversazione con Marianna Vecellio, 2 gennaio 2021

2. Video:

Michael Rakowitz
Seder for Pompeii
11 dicembre 2021, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino
A cura di, offline e online, Marianna Vecellio
Con Michael Rakowitz, Marianna Vecellio, Andrea Viliani
Documento audio-video in italiano e in inglese
Courtesy l’Artista

In occasione e nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche – primo programma di arte contemporanea ideato e prodotto dal Parco Archeologico di Pompei – il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, e Pompei hanno avviato una collaborazione che comprende, fra altre attività, l’invito e la commissione di un contributo inedito all’artista Michael Rakowitz, pubblicato in contemporanea sul portale Pompeii Commitment e nel Cosmo Digitale del Castello di Rivoli. Il contributo è stato curato da Marianna Vecellio, Curatrice al Castello di Rivoli presso cui, con Carolyn Christov-Bakargiev, Direttore del Museo, ha co-curato la mostra personale e la relativa monografia Michael Rakowitz. Legatura imperfetta (08-09-2019 – 19.01.2020).

L’introduzione al contributo di Michael Rakowitz è affidata alla conversazione tra l’artista e Marianna Vecellio (pagina 1).

Immagine in home page: Monte St. Helens rappresentato qui prima (s) e dopo (d) la devastante eruzione del 1980. Courtesy di United States Geological Survey

 

Michael Rakowitz nasce a Great Neck nello stato di New York nel 1973 da Frederic Rakowitz, americano di origini ungheresi, e Yvonne David, di origini ebreo irachene. Il nonno materno, Nissim Isaac Daoud bin Aziz (successivamente anglicizzato in David), lasciava nel 1941 l’Iraq con la moglie e i loro due figli per stabilirsi dopo alcuni anni di viaggio a Long Island nel 1947. Fin da piccolo, insieme alla famiglia, Rakowitz intraprende numerosi viaggi di formazione visitando la penisola dello Yucatan in Messico e Israele/Palestina, luoghi che lo segneranno profondamente. Egli mostra immediatamente una particolare sensibilità verso il racconto delle sofferenze umane, delle diaspore che hanno toccato direttamente la sua storia familiare e dei grandi temi della contemporaneità.
Nel 1997 realizza la sua prima performance culinaria, Hubuz cucinando del pane con la comunità femminile di Kerak in Giordania; l’opera esprime la sua attitudine collaborativa e l’interesse a coinvolgere le comunità locali in atti partecipativi. Nel 1998 si iscrive al corso di arte pubblica presso il Dipartimento di Architettura del MIT-Massachusetts Institute of Technology di Cambridge, frequentando le lezioni degli artisti Krzysztof Wodiczko (Varsavia, 1943), Dennis Adams (Des Moines, 1948) e Joan Jonas (New York, 1936). Lo stesso anno, Rakowitz realizza paraSITE (“paraSITO”), un progetto tuttora in corso che consiste nella creazione di rifugi gonfiabili ideati per ospitare senzatetto, i nomadi delle metropoli occidentali. Nel 2004, con l’attacco dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, l’artista inizia a ideare progetti che indagano la cultura irachena spesso offuscata dalle narrazioni belliche. Crea così azioni di natura partecipativa e relazionale, come Return (“Ritorno”, 2004) nel quale ricostruisce la Davisons&Co., l’attività di import-export di suo nonno, mettendo a disposizione un sistema di spedizione allora inesistente o proibitivo e mettendo in relazione realtà lontane che altrimenti non avrebbero mai potuto comunicare.
Rakowitz ha esposto in numerose rassegne internazionali come la 16° Biennale di Sydney, 2008; dOCUMENTA (13), 2012; 10° e 14° Biennale di Istanbul, 2007, 2015; 8° e 14° Biennale di Sharjah, 2007, 2019. Tra le principali mostre personali la retrospettiva co-organizzata nel 2019 dalla Whitechapel Art Gallery di Londra e dal Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, e quella tenutasi al Jameel Arts Centre di Dubai nel 2020. Nello stesso anno Rakowitz ha vinto il Nasher Award, nel 2018 l’Herb Alpert Award, nel 2012 il Tiffany Foundation Award, il Premio della Giuria alla Biennale di Sharjah, il Dena Foundation Award nel 2003 e il Design 21 Grand Prix dell’UNESCO nel 2002. Sue opere sono presenti nelle collezioni permanenti di importanti musei quali Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, Tate Modern, Londra e MoMA-Museum of Modern Art, New York.

Pompeii Commitment

Michael Rakowitz, con Marianna Vecellio. Seder for Pompeii

Commitments 36 25•12•2021

Conversazione su un’eruzione

Michael Rakowitz e Marianna Vecellio

2 gennaio 2021

Americano di origini ebraico-irachene, Michael Rakowitz è artista, architetto, insegnante e chef. Le sue opere affrontano la storia dei luoghi e la loro memoria. Esse esplorano i concetti di vuoto e di assenza e creano una sorta di ri-fascinazione simbolica. Interessato a indagare la nozione di frammento, attraverso le sue opere, l’artista propone un processo di ricostruzione, basato sul principio del valore sociale delle azioni di scambio, condivisione e partecipazione. 

Alla fine del 2020 a Rakowitz venne chiesto di dare un contributo artistico per il programma digitale di Pompeii Commitment che rendesse giustizia alla storia complessa e intricata del sito archeologico. Questa conversazione, iniziata il 2 gennaio 2021, è avvenuta durante la genesi della sua proposta, attingendo a temi vicini alla sua visione in quanto artista, come l’idea del nutrimento, il concetto del “fantasma”, l’atto creativo inteso come eruzione, il concetto di monumento e il potere della restituzione simbolica che l’idea di reincantamento o di ri-fascinazione portano con sé. 

Marianna Vecellio Forse potremmo iniziare parlando dell’importanza del tuo lavoro per Pompei. Ciò che ti interessa è il potenziale della ricostruzione simbolica dei luoghi. Spesso ti sei confrontato con siti archeologici danneggiati e perfino con rovine, come Ninive in Iraq e Bamyan in Afghanistan e adesso Pompei. 

Michael Rakowitz C’è un aspetto del mio lavoro per Pompei che vedo come un continuum con ciò che ho fatto con l’opera Geniza e con la mia riflessione sull’idea di ciò che accade quando i corpi restano congelati nel tempo. Quando l’altro giorno ho saputo della scoperta della bottega del fast-food a Pompei, mi sono detto: “Sarebbe incredibile realizzare una serie di eventi culinari, basati sull’idea del nutrimento”. L’idea di camminare e mangiare o di potersi fermare per prendere qualcosa da mangiare mentre ci si sta spostando, è parte di ciò che rende tale una città. Nel suo libro Il Dilemma dell’onnivoro, Michael Pollan afferma che le città si sono formate nel momento in cui le persone hanno deciso di cucinare insieme. Per me che ho iniziato la mia carriera guardando all’architettura e mettendola in relazione con la ritrattistica, quando si parla di abitazioni, l’atto di cucinare è un tassello fondamentale nel processo che ha portato alla formazione delle città. E riflettendo, la vicenda di Pompei è molto legata alla storia. Pompei è così ricca dal punto di vista della sua vicinanza alla storia.

MV l temi della partecipazione e della dimensione spaziale, rituale e comunitaria che prende forma attorno a un’esperienza condivisa sono aspetti importanti del tuo approccio. Mi riferisco ai progetti sul cibo e ai workshop.

MR La preparazione delle ricette babilonesi che ho utilizzato è molto lunga. Un piatto come il Masgouf, una pietanza a base di pesce che deve cuocere per ore, finisce per riunire attorno a sé persone che aspettano la propria porzione. Ma mentre aspettano, bevono, mangiano le meze, fanno tutte queste cose insieme. Improvvisamente, mentre il cibo viene preparato, ti rendi conto che hai attorno un’intera comunità. Quindi ho delle visioni di ciò che si potrebbe fare anche a Pompei, oltre all’intervento scultoreo statico, perché Pompei rappresenta tutto ciò che sembra congelato. Cosa accade se facciamo qualcosa che assomiglia a questi pasti, immergendoci nel tempo archeologico e geologico? 

MV L’idea del cibo come rituale o della celebrazione collettiva rimanda a una sorta di ri-fascinazione e rievocazione. È un ritorno alla vita. Questo è coerente con l’idea del fantasma che ricorre nella tua opera. È molto interessante per me, e significativo per Pompei, che è una città cristallizzata. È una città fantasma perché ci parla del ritorno. L’idea di ricreare una celebrazione alimentare e dello stare insieme è anch’essa una rievocazione. Quindi, riguarda il passato e il presente. 

MR Assolutamente. Mi appare molto chiaro che proprio adesso notiamo un certo modo di vivere tra le rovine di ciò che è avvenuto prima, senza essere completamente sicuri di ciò che avverrà dopo. Abbiamo cercato di fare cose che ci uniscono. Sono “linee-vita” in un certo senso – attrezzatura di sopravvivenza – queste conversazioni che facciamo tra noi. Ho condotto molte sessioni di cucina con persone che erano online, con Emily Jacir che a Betlemme porta avanti un programma di residenza che si chiama Dar Jacir. Tutti si trovavano nella propria cucina. Poter fare questo attraverso un sito web, ma anche tenere eventi in formato digitale, in attesa di incontrarci di nuovo di persona, è un modo per entrare in sintonia con l’ethos di quanto avvenuto a Pompei. Il momento in cui il cibo diventa magico, quando pensiamo al fumo che sale dalle stufe e si unisce al fumo dell’eruzione che potrebbe essere ancora nell’aria, diventa parte di questa aggregazione della storia.

MV Non ci avevo pensato. È anche interessante pensare alle ceneri del cibo che brucia e alle ceneri lasciate dall’eruzione. Fa tutto parte della stessa materia. 

MR È carbonio, che è un segno di vita.

MV Questa idea di creare un momento di unione in attesa di potersi incontrare di nuovo di persona è bellissima. È come una preghiera.

MR Sì. È ciò che ho fatto ad aprile durante la Pasqua ebraica, che ricorda la fuga degli ebrei dall’Egitto il loro vagare per 40 anni prima di raggiungere la Terra promessa. La Pasqua ebraica quest’anno è stata incredibile perché non potevamo riunirci. Quindi è stata molto simile all’Esodo, all’esilio. E improvvisamente queste preghiere, a cui ogni anno tra mille difficoltà avevamo cercato di dare un senso, hanno assunto un significato che tutti potevano comprendere. Erano rinvigorite, avevano recuperato il fascino del loro significato. La stessa cosa accade ai monumenti che a volte perdono il proprio potere di parlare al loro pubblico e poi, improvvisamente, riacquistano il potere delle parole.

MV Rifletti spesso sul concetto di monumento, in particolare sull’idea di come i monumenti possano assumere nuove forme, nuovi significati, poiché raccontano e illustrano la storia. Attraverso i monumenti possiamo modificare il modo di relazionarci con la storia. Penso anche alla destituzione dei monumenti durante le proteste di Black Lives Matter. Il nostro presente merita una nuova lettura e prospettive diverse attraverso le quali interpretare la storia, che stanno emergendo dal movimento decoloniale e da altri movimenti, ma anche dalla revisione del concetto di Era antropocenica che delinea nuovi modi di considerare gli esseri non-umani, le altre specie e le altre creature viventi. Quindi è molto importante il modo in cui creiamo i monumenti e come ci relazioniamo con loro. Questo è un altro aspetto con cui ti confronti con forza nella tua pratica. Sto pensando a Lamassu.

MR Sì. Possiamo trasformare i monumenti in qualcosa che non è mai fisso? E il termine fisso lo intendo in due modi: fisso in quanto non si muove e fisso dal punto di vista dell’idea che ne deriva. Non vorrei mai che un monumento fosse qualcosa che non ci viene a cercare, che non ci obbliga a un ritorno verso di lui. Questo è il senso della Pasqua ebraica. Forse è stata la prima performance di arte concettuale nella storia. È stato molto positivo il fatto che le persone abbiano deciso di celebrarla ogni anno proiettando un significato magico sul cibo. L’uovo simboleggia il cerchio della vita. Le mele grattugiate con datteri, noci e miele rappresenterebbero la malta utilizzata per costruire edifici in mattoni nell’antico Egitto. Ogni anno rievochiamo tutto questo. La ragione di questa rievocazione annuale è che ci serve un aiuto per ricordare; allo stesso modo sento la necessità di ricordare i monumenti, anche quelli che ci inquietano. Questa idea per cui la decolonizzazione o la restituzione è un traguardo raggiunto dal quale partire è un’interpretazione completamente errata del modo in cui stanno realmente le cose, ossia che bisogna tornare al passato. Dobbiamo ricordare, altrimenti nulla ha più senso. E i monumenti rappresentano una specie di posizione fissa. Noi sappiamo anche troppo bene che ciò non è rappresentativo. Abbiamo bisogno di luoghi in cui fare davvero i conti con ciò che è danneggiato; abbiamo bisogno di affrontare queste cose e di soffermarci sui loro aspetti problematici. Altrimenti, secondo me, i monumenti e i memoriali diventano macchine dell’oblio. 

MV La biologa e femminista Donna Haraway utilizza la frase “stare con il problema”. Nel suo ultimo libro,  Chthulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, spiega che la parola trouble (in italiano, problema) viene dal francese troubler, che indica qualcosa di sporco, fangoso. Quindi è legato alla sporcizia ma anche al terreno o al suolo, materiali presenti nei siti archeologici. Quindi “lo stare con il problema” è molto pertinente nel contesto di Pompei, dove il monumento sta con il problema, resta lì, insieme alla complessità del suo significato.

MR Esattamente. Hai parlato di Donna Haraway nel tuo saggio per il mio catalogo espositivo al Castello di Rivoli.

MV Sì. Ho fatto riferimento all’idea di “creare legami”, di fare e mantenere relazioni di affinità e al concetto di tenere insieme questioni diverse. Non c’è mai un solo punto di vista, ci sono più prospettive e questo è l’unico modo per affrontare la storia. Negli ultimi decenni abbiamo iniziato a capire che il nostro approccio (occidentale, dominante, patriarcale) è insufficiente e che anche l’uso del linguaggio deve essere in qualche modo ridefinito. Ecco perché ho coniato il termine “comp(h)ost”, una combinazione di compost e host (colui che ospita).

MR Assolutamente. Si riferisce ai nutrienti presenti nel luogo in cui qualcosa è morto, dove qualcosa è in decomposizione. Da qui deriva la speranza. Per me, si tratta semplicemente di riconoscere che ci sarà sempre qualcosa di nuovo che rinasce. Quando eravamo a Sydney, nel 2008, Carolyn Christov-Bakargiev disse che i momenti radicali che stiamo vivendo oggi, che sono così problematici e che a volte non generano risultati immediati, porteranno alla fine a qualcosa, determineranno un cambiamento anche se non saremo lì per vederli. La mia amica Carmen Lane, artista indigena e artista nera che opera negli Stati Uniti, sta lavorando su progetti incentrati sulla creazione di un mondo che non saremo in grado di vedere. Quindi penso che l’idea del “comphost” ci rende consapevoli della necessità di andare oltre ciò che vediamo all’interno della piccola finestra di esistenza concessa a tutti noi mortali, per realizzare un compost che sia il più nutriente possibile. Perché è da qui che altre cose germoglieranno. 

MV Dobbiamo anche esprimere una forma di gratitudine verso il mondo stesso e il nostro desiderio di ricambiare. Lo afferma l’artista Claire Pentecost nella sua opera: l’idea che dopo avere preso così tanto, dobbiamo ricambiare offrendo un dono a Madre Terra. Si tratta di un modo bellissimo di riflettere sulla nostra partecipazione al mondo. Mi piace l’idea di offrire un dono a Pompei dopo così tanti secoli, perché nulla viene fatto per nulla. Tutto nel nostro mondo ha bisogno di una forma di rispetto. Questo ci fa sentire più responsabili. La capacità della risposta, come la definisce la fisica Karen Barad.

MR Sì, la “capacità della risposta”.

MV Sì, è un aspetto interessante. E sono sicura che grazie al tuo contributo riusciremo a mettere insieme tutte queste idee.