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© Pompeii Commitment. Archaeological Matters, un progetto del Parco Archeologico di Pompei, 2020. Project partner: MiC.
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Beatrice Gibson e Nick Gordon, con Claire Fontaine
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Alkestis, a feminist epic

Commitments 24    15•07•2021

Immagini:

Beatrice Gibson e Nick Gordon
Alkestis, a feminist epic, 2020-in corso
fotogrammi
Courtesy gli Artisti

Testi:

Beatrice Gibson e Nick Gordon in conversazione con

Claire Fontaine, luglio 2021

৺ ෴ ර ∇ ❃﹌﹌, luglio 2021

I film dell’artista e regista Beatrice Gibson sono noti per la loro natura improvvisata, sperimentale ed emotiva. Popolati da amici e influenze provenienti dalla comunità a lei vicina, spesso citano e incorporano processi e idee create insieme e collaborative. Insieme alla sua famiglia – il compagno Nick Gordon, un rinomato regista, e i loro due figli piccoli – Gibson si è trasferita a Palermo nel 2020 e, su suggerimento di loro figlio, ha iniziato a lavorare insieme a Gordon a un nuovo film intitolato provvisoriamente Alkestis, a feminist epic (“Alcesti, un’epopea femminista”). Prendendo come ispirazione sia l’importante traduzione inglese di Anne Carson della tragedia originale di Euripide Alcesti, sia il più ampio corpus di opere di Carson sulla tragedia greca, la versione di Alcesti di Gibson e Gordon sposta l’attenzione ” dagli dèi e dagli uomini alla protagonista femminile dell’opera, figura sacrificale per lo più silenziosa.” Alcesti è ripensata da una prospettiva femminista del XXI secolo, attraverso un dialogo che si snoda tra la sua odissea negli inferi e il viaggio di Beatrice in quanto donna e madre. Secondo Gibson e Gordon, “il film è un’autofiction“, un mosaico di storie che unisce le vicende di Alcesti a quelle della vita di Gibson. Nel contesto di Pompeii Commitment. Archaeological Matters, gli artisti condividono un’anteprima speciale dei materiali in lavorazione – una serie di fotogrammi girati a Pompei nel 2020 con il personaggio di Alcesti-Gibson che cammina tra le rovine per raggiungere gli inferi –, accompagnati da interviste alle “guide spirituali” di Gibson e Gordon a Palermo, due collettivi conosciuti rispettivamente come Claire Fontaine e ৺ ෴ ර ∇ ❃﹌﹌.
Il processo di ricerca e di produzione di Alkestis è profondamente intrecciato alla Sicilia e in particolare a Palermo, dove gli artisti hanno sviluppato numerosi rapporti, amicizie, alleanze e strette collaborazioni. Le loro interviste con Claire Fontaine e ৺ ෴ ර ∇ ❃﹌﹌ sono la testimonianza di un metodo di lavoro in cui viene dato maggior valore alla lentezza e all’essere situati piuttosto che alla velocità, e in cui le conoscenze e le idee vengono provate e testate in maniera aperta e visibile, e in dialogo con una comunità. Una comunità fatta di amici e di influenze, che in questo caso specifico aiutano Gibson e Gordon ad affrontare la complicata sfida di creare un’opera in un contesto che non è il loro luogo di origine. SB

Alkestis, a feminist epic è co-commissionato dal Museo Castelbuono di Palermo e supportato da Hayward Gallery Touring per il British Art Show 9. Sarà esposto da Ordet, Milano ed è il soggetto di una futura pubblicazione di Lenz Press.

Home page image: Beatrice Gibson e Nick Gordon, Alkestis, a feminist epic, 2020-in corso. Courtesy gli Artisti

Beatrice Gibson (vive e lavora a Palermo) è una regista franco-britannica. Le sue mostre personali recenti includono Camden Arts Centre, Londra, Bergen Kunsthall, Bergen, Mercer Union, Toronto, (tutte 2019) e KW Institute for Contemporary Art, Berlino (2018). I suoi film sono stati presentati in festival cinematografici di tutto il mondo, tra cui il New York Film Festival, il Toronto International Film Festival, il London Film Festival. Ha vinto due volte il Tiger Award per il miglior cortometraggio al Rotterdam International Film Festival, nel 2009 e nel 2013, ed ha ricevuto il 17° Baloise Art Prize, Art Basel. Il suo film Deux soeurs qui ne sont pas soeurs è stato presentato in anteprima a Quinzaine (Directors Fortnight) al Festival di Cannes 2019. Parallelamente ad Alkestis, Gibson sta sviluppando un secondo lungometraggio per BBC film.

Nick Gordon (vive e lavora a Palermo) è un regista e co-fondatore della pluripremiata casa di produzione Somesuch. I suoi primi video musicali hanno incluso Roni Size e Supergrass. Il suo cortometraggio SATURDAYS SHADOW è stato presentato in anteprima al New York Film Festival (2008) e ha vinto il Grand Prix al Black Maria Film Festival (2008). I suoi video pubblicitari hanno vinto oltre 35 premi del settore. Gordon ha lavorato come direttore della fotografia in molti dei primi film dell’artista Beatrice Gibson e, più recentemente, è stato produttore esecutivo di Deux soeurs qui ne sont pas soeurs e I Hope I’m Loud When I’m Dead. Sta lavorando a un nuovo film su un mostro.

Claire Fontaine (vive e lavora a Palermo) è un’artista femminista collettiva, fondata nel 2004 a Parigi. Dopo aver preso il suo nome da una famosa marca di quaderni scolastici, Claire Fontaine si è dichiarata un’artista readymade. Tra le recenti mostre personali (selezione): Museo del Novecento, Firenze (2020); Galerias Municipais, Lisbona, Palazzo Ducale, Genova, Städtische Galerie Norhdorn, Nordhorn (tutte 2019); Museo Pietro Canonica, Villa Medici, Roma (2016); Jewish Museum, New York, CCA Wattis, San Francisco (entrambe 2013). Ha recentemente pubblicato Human Strike and the art of creating freedom, Semiotext(e), Los Angeles, 2020.

৺ ෴ ර ∇ ❃﹌﹌ è un gruppo di lavoro femminista intersezionale che nasce nel settembre 2020 in uno spazio virtuale tra Palermo, Napoli e Torino. Ogni persona che ne fa parte ha un legame con il Sud Italia, e si è riunita con la necessità di discutere dell’intersezione tra femminismo – sia nella matrice più storica che nelle sue forme più contemporanee – e la questione meridionale. La ricerca del gruppo segue le azioni compiute dalle donne del Sud, ad esempio nei Movimenti per l’Occupazione delle Terre degli anni cinquanta o nelle proteste legate al terremoto del Belice degli anni sessanta-settanta. Il gruppo si compone di Sofia Melluso, Claudia Gangemi, Sonia d’Alto, Valentina Sestrieri, Naomi Morello, susanna gonzo.

Pompeii Commitment

Beatrice Gibson e Nick Gordon, con Claire Fontaine
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Alkestis, a feminist epic

Commitments 24 15•07•2021
Atto I [fine], Pompei: Foro, Regio VII. Quiete, cicale e polvere
Atto I [fine], Pompei: La bocca spalancata di una dea in pietra
Atto I [fine], Pompei: Foro Civile, Regio VII. Alcesti attraversa il Foro. I suoi figli la inseguono
Atto I [fine], Pompei: Casa di Cornelio Rufo, Regio VIII. Una villa recintata. Un mosaico ai suoi piedi
Atto I [fine], Pompei: Teatro piccolo – Odeon, Regio VIII. Scende un’ombra
Atto I [fine], Pompei: Teatro piccolo – Odeon, Regio VIII. Alcesti occhi fissi su un punto lontano. Fuori dallo schermo, suo figlio lancia polvere di roccia
Atto I [fine], Pompei: Casa di Cornelio Rufo, Regio VIII. Alcesti riposa all’interno. I suoi figli dormono all’ombra
Atto II, Paestum: Alcesti si taglia il dito. “Allora siamo morti ma sanguiniamo ancora?”, chiede suo figlio

Beatrice Gibson e Nick Gordon: Il punto di partenza di queste conversazioni è la produzione cinematografica a cui stiamo lavorando: un adattamento dell’Alcesti di Euripide. Alcesti fu la prima donna mortale a scendere negli inferi. Suo marito, Admeto, ottiene l’immortalità da Apollo a condizione di trovare qualcuno che prenda il suo posto nell’Ade. Dopo aver chiesto invano a entrambi i suoi genitori e dopo aver trascorso gran parte della rappresentazione a infuriarsi, sua moglie Alcesti, infelice da tempo, si offre di sacrificarsi.

Nel nostro adattamento l’attenzione si sposta dagli dèi e dagli uomini alla protagonista femminile dell’opera, figura sacrificale per lo più silenziosa. Il personaggio di Alcesti è ripensato da una prospettiva femminista del XXI secolo, attraverso un dialogo che si snoda tra la sua odissea negli inferi e il viaggio di Beatrice in quanto donna e madre.  L’ambientazione della storia documenta, nel senso più ampio o forse più dilatato del termine, il trasferimento della nostra famiglia nel Sud Italia, in particolare a Palermo e il nostro tentativo di trovare e stabilire un contatto con nuovi modi di essere e di esistere in un contesto radicalmente diverso da quello precedente.

Il film è un’autofiction, ossia una biografia romanzata, un mosaico di storie che unisce le vicende di Alcesti a quelle della vita di Beatrice: dalla nascita dei nostri figli a un rapporto sessuale non consensuale subito da bambina. Il domestico viene reso epico, essendogli conferiti la gravitas e il peso della dimensione mitologica. Il film racchiude anche il nostro tentativo di avvicinarci a una comunità più ampia, in particolare alla tradizione femminista italiana, attraverso figure del passato come Carla Lonzi e Silvia Federici, per esempio, ma anche grazie a persone e collettivi contemporanei e profondamente locali come voi. Ci attira l’idea di usare il film come una sorta di pretesto per individuare o far parte di una comunità e, in questo caso, lo stiamo usando per orientarci e allinearci – per trovare alleati e stringere amicizie – in un nuovo contesto. Al contempo, siamo consapevoli della necessità di muoverci con cautela, con sensibilità e lentezza, in un luogo di cui ormai facciamo intrinsecamente parte, ma che non è, e non sarà mai, il nostro luogo d’origine. In tale contesto ci interessava l’idea di Claire Fontaine e ﹌﹌ come spiriti guida, diretti verso sud, e in particolare verso Palermo: una città situata al crocevia geografico tra Europa, Africa e Medio Oriente, che è anche crocevia temporale. Il Sud è un luogo disseminato di rovine, potrebbe sembrare un portale verso il passato, che tuttavia guarda anche direttamente verso il continente africano, verso il futuro. Utilizzando il patrimonio culturale e l’archeologia come cornice per la nostra discussione, rendendo omaggio a Pompeii Commitment che ci ospita, volevamo riflettere, parlare, esplorare e progettare collettivamente un femminismo legato a questa terra. Nella nostra mente sia Claire Fontaine che ﹌﹌ offrono modelli atipici di soggettività all’interno di un contesto meridionale ed è per questo che vorremmo iniziare da voi.

Claire Fontaine৺ ෴ ර ∇ ❃﹌﹌

Intervista a
Claire Fontaine

Quanti anni ha Claire Fontaine? Puoi raccontarci la storia della sua nascita?

Claire Fontaine: Claire Fontaine è stata fondata a Parigi nel 2004. È nata dalla collaborazione tra James Thornhill e Fulvia Carnevale, siamo diventati un collettivo artistico e abbiamo deciso di adottare un nome femminile locale. Ci definiamo gli assistenti di Claire perché siamo noi a fare tutto il lavoro; amiamo il saggio di Agamben “Gli assistenti” (Profanazioni, 2007) di cui abbiamo realizzato un adattamento video, in cui il poeta e performer Douglas Park legge il testo. Non firmando gli scritti e le opere con i nostri nomi non volevamo creare un personaggio fittizio o ingannare le persone, al contrario volevamo essere precisi denominando uno spazio di creazione che, essendo svincolato dalla nostra biografia, permetteva a noi e agli spettatori di essere più liberi, anche da noi stessi: è uno spazio di desoggettivizzazione. Abbiamo scelto un nome legato alla celebre marca francese di cartoleria, Clairefontaine, che produce quaderni per gli studenti e fogli bianchi per scrivere, disegnare e stampare testi e immagini, una delle loro fabbriche si trovava nella zona est di Parigi vicino al nostro studio sul canale Saint Martin, ci passavamo davanti ogni giorno, ci piacevano l’edificio coperto di rampicanti e la vecchia insegna sul muro di mattoni. Ma è anche un nome che evoca con forza il più famoso ready-made di Marcel Duchamp, l’orinatoio intitolato Fontaine (1917) che è, tra l’altro, probabilmente il furto della scultura di un’artista donna, Elsa von Freytag-Loringhoven. La versione di Bruce Nauman, Portrait of the Artist as a Fountain (1966-1967), mostra l’artista da giovane mentre sputa acqua in aria. Quest’opera ci ha sempre incuriosito. E se il ready-made fosse una forma applicata alla soggettività e alla figura dell’artista? E se l’artista fosse egli stesso un ready-made, come forma di vita? E se l’azione di riciclare, di appropriarsi di cose d’altri non venisse nascosta ma esposta come la strategia più comune per sviluppare la creatività? Nel mondo dell’arte si continua a porre l’accento sulla singolarità quando invece ciò che ha valore è collettivo, a partire dal linguaggio, il più utile e universale dei beni comuni: più lo si condivide, più diventa potente. Anche l’idea di Aby Warburg della migrazione delle immagini attraverso il Mediterraneo è fondamentale per noi, la capacità dell’energia di un’immagine di sopravvivere, di cambiare polarità svolge un ruolo importante in come usiamo le forme esistenti. Il nostro lavoro non ha la pretesa di essere nuovo o originale, ma vuole essere intenso, commovente, inquietante, trasformativo. La prima mostra di Claire si è svolta alla Galerie Meerrettich, nel Glaspavillon del Volksbühne di Berlino nel 2005, che ora è biglietteria e bookstore del famoso teatro Volksbühne. Eravamo stati invitati da Antek Walczac e lo spazio era gestito da Josef Strau. La mostra è stata inaugurata il 3 gennaio attirando una folla di visitatori davvero fantastica: abbiamo conosciuto alcune persone che sono ancora oggi tra i nostri migliori amici. La seconda mostra ha avuto luogo da Reena Spaulings a New York nel settembre dello stesso anno; l’opera in vetrina, Foreigners Everywhere (Arabic), ha causato una tale controversia che ha obbligato la galleria a traslocare. Fortunatamente la mostra è piaciuta più al pubblico che al proprietario dei locali.

 

Potresti parlarci dell’influenza di Carla Lonzi sulla tua pratica, sia in termini di attività artistica, per esempio le opere presentate da t293 ispirate ai suoi scritti, ma anche di utilizzo della sua figura come modello per il pensiero radicale in generale. Secondo noi, hai svolto un ruolo fondamentale nel renderla accessibile a un pubblico non italofono. Penso a The Human Strike, l’articolo su eflux

Ci piacerebbe molto fosse così! Carla Lonzi è una pensatrice estremamente contemporanea e ci stiamo battendo per far tradurre i suoi scritti in inglese, speriamo di riuscirci presto per permettere ad altre persone di comprenderne l’importanza. Lonzi odiava l’arte come professione e la sua rottura sia con Carla Accardi che con il suo compagno di lunga data, Pietro Consagra, dimostrano la sua inflessibilità verso l’atteggiamento diffuso di superiorità creativa degli artisti nei confronti del grande pubblico. Detto questo, Lonzi criticava anche qualsiasi posizione professionale che portasse riconoscimento e prestigio a un individuo, specialmente a una donna. Oggi questa sua posizione è insostenibile per molte ragioni, ma il suo rifiuto era giustificato e in una certa misura è una fonte di ispirazione. Nel catalogo della mostra su Carla Lonzi che si è tenuta presso il Museion un paio di anni fa, curata da Ilse Lafer dal titolo Doing Deculturalisation, abbiamo pubblicato un testo sulla categoria dell’illeggibile negli scritti di Carla Lonzi e nell’ambito della sua posizione politica. Forse questo è un aspetto che ritroviamo nella pratica di Claire Fontaine, una costante consapevolezza della violenza della traduzione, del passaggio da una lingua all’altra, da una cultura all’altra, da un gruppo di persone (come i curatori o i critici d’arte) a un altro (come gli artisti). Esiste un modo di valorizzare il fatto di restare fedeli a se stessi – che Lonzi chiama curiosamente “autenticità” – che è molto importante per noi e non implica rigidità, moralismo o sordità verso ciò che non piace o da cui ci si sente minacciati. Al contrario, è il tentativo di avvicinarsi il più possibile all’energia e alla potenza di un’idea, di una posizione profondamente sentita, per quanto discutibile e pericolosa possa sembrare, purché la si senta e la si percepisca come giusta con tutto il corpo e l’anima.

 

Qual è il rapporto di Claire Fontaine con il femminismo del sud, o meglio, come si potrebbe definire il femminismo della terza ondata da una prospettiva meridionale… ci sono questioni o tematiche che ti sembrano particolarmente legate al femminismo del sud? Mettiamola in questi termini: secondo te, che cosa è veramente intollerabile per una donna, un transgender o una persona non binaria che vive, cresce e abita al sud?

La categoria stessa del femminismo del sud è complessa. Ogni femminismo è fatto di molti femminismi e nel “sud globale” – se ci è permesso usare questa espressione che resta imprecisa e troppo generica – la specificità è che le donne sono le uniche prestatrici di assistenza e, a livello statistico, il loro tasso di occupazione è inferiore rispetto a quello della popolazione maschile, in parte perché il terzo settore è più limitato, in parte perché il lavoro di assistenza degli altri molto spesso non è retribuito. L’aspetto più complicato è che risulta praticamente impossibile spezzare i legami caritatevoli che si instaurano tra le donne incatenate all’erogazione delle cure e i loro assistiti senza causare dolore, decessi e dramma. Chi si prende cura di altre persone non può scioperare, non può fare una pausa, e questa è un fenomeno ignorato sia nella cultura sindacale che nel concetto tradizionale di lavoro. Se questo venisse compreso appieno (durante la pandemia in effetti qualche progresso nella consapevolezza della situazione a livello globale è stato compiuto) il mondo ne uscirebbe rivoluzionato. Salario contro il lavoro domestico (1975) di Silvia Federici è ancora oggi un testo sorprendente poiché mette in discussione tutte le implicazioni della retribuzione monetaria e la forma del valore in sé come categoria. Una cosa comunque è certa: quando il patriarcato scomparirà, gli uomini del sud ne trarranno maggior beneficio rispetto a quelli del nord, ma non se ne rendono conto e questo è intollerabile. Per quanto riguarda le persone non binarie o i transgender, la loro identità è sempre, come ogni identità, frutto della negoziazione con il contesto in cui vivono: per queste soggettività c’è sicuramente molto lavoro in più da fare al sud, credo che le statistiche della violenza commessa contro di loro siano tristemente molto alte ovunque, ma ci stanno aiutando a evolvere e dobbiamo esser loro grati per il loro coraggio e la loro intelligenza.

 

Potresti parlarci del concetto di materialismo magico che hai toccato durante una nostra precedente conversazione? Pensi che questo sia un processo a cui il sud attinge in modo particolare? In quale modo il trasferimento al sud ha influito su di te / sulla tua pratica / sul tuo modo di essere e di vivere la quotidianità?

Il materialismo magico è una categoria che abbiamo creato per riattribuire valore e importanza a cose e sentimenti che sono percepiti come poco importanti nell’attuale sistema economico e politico. La forma estrattiva del capitalismo in cui siamo ancora immersi è ormai pienamente consapevole delle sue ripercussioni sulla nostra salute e sulla vita del pianeta. Eppure questo non è sufficiente per cambiare a livello istituzionale l’organizzazione della produzione e la ridistribuzione della ricchezza. Le interconnessioni tra le azioni che compiamo, le energie grazie alle quali viviamo, la vita fisica ed emotiva di tutti noi sono del tutto ignorate. Qualcosa è produttivo e importante solo se genera accumulo, altrimenti è inutile anche se migliora sensibilmente la salute delle persone e contribuisce a risolvere l’emergenza climatica. Con il pretesto di basarci su un paradigma razionale, scientifico o economico, andiamo contro la nostra esperienza fisiologica di stare nel mondo e ci comportiamo in modo assurdo. Attualmente viviamo in un sistema criminale a livello globale che mette in pericolo la vita dei nostri figli e ignora i rapporti scientifici che invocano cambiamenti drastici; trasferirci in un luogo ritenuto criminale e sottosviluppato era per noi l’unico modo per sottrarci alle forme amministrative autorizzate di distruzione delle nostre vite, come la gentrificazione e la colonizzazione della mente. Sì, oggi c’è stata una riunione di crisi nazionale del governo a Roma per affrontare il problema degli incendi dolosi in tutta la Sicilia e ci sono diverse altre emergenze in atto nella regione ma qui almeno la spazzatura è in strada dove può essere raccolta, non nei cuori della gente. Palermo è una città davvero accogliente e ha molto da offrire se si vuole ristabilire un contatto con la propria vita interiore, il proprio corpo e uno spazio sociale sano. Qui le persone sanno che potere e ricchezza non sono sistematicamente rispettabili e possono anche essere pericolosi per la vita collettiva, hanno un ricordo vivido dell’oppressione e della violenza, per questo sono attente a non ricrearle nella vita quotidiana.

 

Potresti approfondire la tua idea dello “sciopero umano”? Lo sciopero emotivo. È un concetto così estremamente bello e rivoluzionario, che coinvolge l’aspetto cerebrale o intellettuale così come quello corporeo e somatico, anche se sembra minare entrambe le categorie.

Lo sciopero umano è un’idea fondatrice per noi perché permette di estendere la lotta all’ambito dell’intera soggettività ; lo spazio professionale ormai ha invaso ogni angolo della vita di tutti e lo spazio sociale è più che mai produttivo e redditizio per il sistema in cui operiamo. Il consumo è anche lavoro. Le tecniche per spingere le persone a crearsi una sensibilità estetica e a desensibilizzarsi in maniera selettiva, a sognare una vita particolare sono utilizzate anche per definire la propria posizione politica, la complicità con un mondo in cui all’essere umano non è concesso di avere un’esistenza che abbia un senso, in cui è proibito aspirare alla libertà e alla sperimentazione sociale. Gli algoritmi e le pubblicità mirate sono inscindibili dalla sorveglianza di massa che pone sullo stesso piano attivismo e terrorismo, criminalizzando le proteste legittime che cercano soltanto di preservare la democrazia. Lo sciopero umano mette in discussione il nostro grado di dipendenza da ciò che è tossico per noi. Ci offre la possibilità di politicizzare un cambiamento di atteggiamento nei confronti delle aspettative che la gente ripone in noi. Ci siamo ispirati alle lotte femministe che non hanno tardato a vedere i corpi e i processi di soggettivazione come campi di battaglia. Non hanno creato dei gruppi esclusivamente in funzione delle loro situazioni lavorative o della loro posizione sociale: il femminismo italiano è stato un movimento trasversale e di disturbo che ha incoraggiato le donne a “partire da se stesse” nel doppio senso del termine: partire dalla loro situazione personale per poi abbandonarla e veleggiare verso una nuova realtà. Entrare in contatto con una soggettività che ha politicizzato l’oppressione fisiologica e l’alienazione sessuale è un’esperienza completamente rivoluzionaria: è una nuova anima in un nuovo corpo destinata a spingere gli altri verso una percezione diversa del mondo. È una visione profondamente politica di ciò che dovrebbe essere la salute.

 

Secondo te, come si collegano i femminismi italiani al concetto di “sciopero umano”? In quale modo il femminismo italiano come paradigma influenza il tuo lavoro in generale?

I femminismi italiani – usiamo il plurale perché non c’è mai un solo femminismo – presentano un’importante componente non riformista che troviamo estremamente stimolante. La differenza viene privilegiata rispetto all’uguaglianza e c’è scetticismo verso l’idea di adattarsi alla società esistente: è la società che deve adattarsi alle donne che prima ne erano escluse, perché vi hanno contribuito con il dono inestimabile della loro libertà. Il libro collettivo della Libreria delle Donne di Milano, il cui titolo tradotto in inglese è Sexual Difference, A Socio-Symbolic Practice, mentre in italiano si intitola Non credere di avere dei diritti, è un omaggio a Simone Weil. L’idea che l’intero apparato della Giustizia e la società in generale siano strutturati da valori patriarcali è molto importante e ha conseguenze epistemologiche. Il modo in cui usiamo le parole e le categorie che adottiamo per avvicinarci alla realtà sono anche il frutto della cultura patriarcale stessa. Il fatto di renderla esplicita ci offre la possibilità di ascoltare la voce che dentro di noi dissente, rendendola forte e chiara. C’è un lavoro di giustizia epistemica da compiere e ci sono nuovi corpi da creare attraverso questo processo. Si tratta di una reale trasformazione del mondo che ovviamente influisce sul modo con cui facciamo arte e guardiamo l’arte fatta da altri. Anche quando il contenuto femminista non è esplicito in un’opera d’arte, esiste una sensibilità specifica che è rivitalizzante ed è riconoscibile come il risultato di una sana presa di distanza dalla cultura patriarcale ufficiale. Per noi questo è molto importante.

 

Nel nostro film il personaggio di Alcesti cerca essenzialmente di cambiare se stessa, di combattere qualcosa dentro di sé. Il suo viaggio verso sud è sia interno che esterno. Il film per esempio termina con un sogno. Quali consigli darebbe Claire Fontaine ad Alcesti?

Dare consigli non è la specialità di Claire Fontaine… Ma auguriamo buona fortuna ad Alcesti e a voi, il suo viaggio è profondo e oscuro, avrà bisogno di molta abilità per trasformarlo in un’esperienza piacevole e riflessiva. Dopo tutto viviamo ancora in tempi di femminicidio e il patriarcato non ha ancora finito di scomparire.

Intervista a
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Potreste raccontarci qualcosa sul vostro collettivo, sulle cose di cui vi state occupando, quali sono le intenzioni o gli obiettivi del gruppo?

﹌﹌: Il gruppo è nato in maniera informale nel settembre 2020. Fin dall’inizio, abbiamo registrato, archiviato e riascoltato i nostri incontri online per sviluppare un metodo spontaneo e prevalentemente dialogico. Inizialmente, avevamo un obiettivo specifico: una pubblicazione che volevamo distribuire nelle città e nelle aree remote del Sud Italia; ben presto le nostre conversazioni sono andate oltre, concentrandosi maggiormente sugli aspetti orali della nostra comunicazione. Per orientare la nostra ricerca, che è diventata profondamente collettiva, abbiamo alternato momenti più intimi e domande sul come e sul cosa; ci siamo avvicinati a storie e leggende che erano state dimenticate oppure oscurate dalle grandi narrazioni del potere e del patriarcato (che, come sappiamo, spesso coincidono), storie di azioni del passato; documentari, libri e teorie sul rapporto tra il corpo e il paesaggio (non il territorio).

 

Potete farci un esempio del tipo di storie o leggende che avete considerato? Abbiamo parlato del caso di Franca Viola ad esempio. È una figura centrale della lotta nel Sud Italia e, in effetti, la sua è una vicenda chiave molto legata a quella di Alcesti o almeno alla nostra versione di Alcesti che contiene anche l’episodio di un rapporto sessuale non consensuale. L’episodio è per molti versi estremamente banale, ma attraverso la figura di Alcesti lo riconduciamo agli dèi. La decisione di inserirlo è una forma di resistenza, non di vittimismo. Non è esagerato affermare che la maggior parte delle donne di oggi ha vissuto la stessa esperienza in qualche forma e in varia misura. Inserendo questo episodio, abbiamo voluto normalizzarlo, in altre parole, mostrare quanto quel livello di violenza sia comune.

Franca Viola è la figura più emblematica delle lotte intraprese dalle donne in Italia: di origine siciliana, si oppose a un matrimonio riparatore, dopo essere stata rapita e violentata dal suo ex fidanzato mafioso. La battaglia di Franca va contro la morale tradizionale e la legge del tempo che vedeva le donne come beni impuri che avevano bisogno di redenzione e castigo. Franca si è opposta al suo ruolo di vittima e ha scelto di autodeterminarsi contro i suoi aggressori, mettendo in discussione un intero sistema ideologico che giustificava la violenza sulle donne. Le nostre antenate sono passate attraverso tutto questo: matrimoni combinati con uomini che non avevano mai incontrato prima. Nel caso di Franca Viola il finale è diverso, perché ha avuto la forza di sfidare la mostruosità di questa antica pratica. 

 

Potreste dirci qualcosa in più su questo concetto della relazione tra corpo e paesaggio, magari sempre da una prospettiva personale? In quale modo vi sentite modellate o influenzate dal paesaggio?

Ci interessa la relazione tra il corpo e il paesaggio perché siamo consapevoli di quanto sembriamo aver dimenticato la relazione interdipendente ed essenziale tra il corpo e il suo ambiente; qualcosa che un tempo tutti conoscevano molto bene. Da un punto di vista personale, questa relazione è una scoperta: dei propri valori rispetto all’esistenza, ma anche di come strutturare la propria vita. Significa saper ascoltare e allo stesso tempo attivare nel nostro corpo una sorta di memoria emozionale e intuitiva che comunica con molteplici temporalità e su molteplici livelli. Infatti, la nostra conversazione è iniziata analizzando il tema della soggettività di Carla Lonzi: ci siamo interrogate sul significato che questa parola ha per noi, sulla sua relazione con noi e i nostri corpi e ci siamo anche chieste se questo concetto avesse ancora senso. La questione meridionale è emersa come un’area problematica in cui imbrigliare gli aspetti subordinati delle nostre esistenze in quanto donne e persone legate al Sud.  Abbiamo letto diversi testi antropologici e brani in cui è cristallizzata una visione del Sud e delle donne in forma esotica; abbiamo esaminato in quale modo ciò ha influenzato la vita quotidiana e la società nel contesto di queste aree geografiche costruite e sottomesse. Da qui il nostro interesse per le rivolte, le pratiche rivoluzionarie e gli episodi di lotta condotti da donne, nonché per il discorso femminista che si è sviluppato all’interno di tali contesti specifici.

Il nostro processo di ricerca prende spesso le mosse da momenti storici in cui la partecipazione delle donne è stata oscurata. Durante i primi incontri abbiamo analizzato i documenti relativi a episodi storici di lotta collettiva, come l’occupazione delle terre in Sicilia alla fine degli anni quaranta e i movimenti di protesta del 1968 dopo il terremoto del Belice. Le donne erano in prima linea nelle proteste contro l’appropriazione delle terre: proteggevano i lavoratori dalla polizia formando fisicamente un cerchio intorno ai gruppi di uomini; in quanto donne, la polizia non poteva picchiarle. Riteniamo che questi tipi di proteste ed eventi siano interessanti in quanto avvenuti in luoghi remoti della Sicilia interna introducendo forme di protesta pacifiste e alternative. La manifestazione del Belice 1968 ebbe un’organizzazione particolare: molte donne parteciparono alle assemblee politiche e le loro pratiche furono influenzate da Danilo Dolci. Alcune donne hanno contribuito con idee forti, come lo sciopero fiscale e il boicottaggio del servizio militare.

 

Avete progetti specifici per l’area locale a cui state lavorando?

Come accennato prima, una delle nostre ambizioni è trasformare questa esperienza in una pubblicazione che vorremmo distribuire, con l’obiettivo di raggiungere anche le zone più remote del Sud Italia. Oltre a proseguire i nostri incontri settimanali, che ci stimolano a produrre a livello individuale immagini, video, disegni o riflessioni scritte, stiamo anche approfondendo la questione delle proteste post-terremoto nel Belice. Per continuare la nostra ricerca, organizzeremo una residenza d’artista a Gibellina tra ottobre e novembre di quest’anno.  Vorremmo creare uno spazio fisico d’incontro in cui poter proseguire la nostra attività prendendo le distanze dal virtuale. Siamo lieti di collaborare con il programma no-profit Nuova Orfeo di Palermo in cui curiamo una selezione di film e documentari femministi, oggetto delle nostre discussioni di quest’anno. Tuttavia, la nostra pratica continua a essere spontanea; non decidiamo mai in anticipo quale lingua o mezzo useremo. Ci piace l’idea di poter essere tutto o niente, ed è anche per questo che abbiamo scelto un nome che non è fatto di parole: questo per non finire intrappolati in frasi che finirebbero per inquadrarci in un contesto o in un ambito specifico.

Ultima cosa ma non meno importante, i nostri incontri sono diventati anche un modo per riempire il vuoto, per compensare la mancanza di uno spazio in cui incontrarsi e reinventare un linguaggio, per abitare e coesistere in uno spazio che non sia istituzionale o formale, ma svincolato dalle relative convenzioni che ci impediscono di trovare la nostra voce. Come sostiene Carla Lonzi, “Nulla o quasi è stato tramandato sulla presenza delle donne nel mondo: sta a noi riscoprirlo per conoscere la verità.” In tal senso, è interessante usare l’archeologia come metafora nella nostra ricerca di gesti e momenti di lotta femminista nel Sud; è come ricercare le tracce di una civiltà perduta. Storicamente, la donna nel Sud è il simbolo della famiglia; c’è una teoria molto interessante di Leonardo Sciascia che in qualche modo incolpa la donna, in quanto educatrice degli uomini, per la nascita della mafia, elaborando il concetto di “matriarcato patriarcale”. In ogni caso, la donna è vista come debole e forte allo stesso tempo: l’uomo le delega l’educazione dei figli mentre esercita il suo potere su tutto il resto. Anche la femminilità nel Sud è fortemente stereotipata, in quanto assume il suo significato unicamente attraverso una serie di riferimenti simbolici da accettare o respingere, distruggere o riesumare, pur restando un riferimento con cui relazionarsi, piuttosto che un ruolo sociale al quale conformarsi o con cui essere in conflitto. In tal senso, abbiamo parlato della definizione di donna, con la quale molti di noi non si identificano: l’incontro con l’opera di Monique Wittig, in particolare, ha messo in discussione l’interpretazione delle categorie di genere e di sesso come “naturali” e “indiscutibili”, mostrando come l’essenza o la predisposizione verso un certo ruolo nella società non sia semplicemente “il destino di una donna”, ma un preciso schema patriarcale che contrappone i ruoli dei due sessi, quello dell’oppressa e quello dell’oppressore, definendoli al proprio interno.

 

Un aspetto interessante della cultura del sud è un profondo senso di sacrificio e di colpa che è ancora molto presente; le sue origini sono antiche, ed è un elemento che viene trasmesso da molte generazioni di donne, specialmente da chi è madre. È uno strumento per controllare il corpo, la soggettività e il potere delle donne all’interno di una comunità, per “castrarle” all’interno del nucleo familiare e della narrazione patriarcale. Questo binomio sacrificio-senso di colpa è centrale anche nel personaggio di Alcesti: come lo interpretate?  E quanto di questo fantasma (nel senso di “revenant”, ossia chi ritorna) vedete nella sua figura?

Nel nostro adattamento, la decisione di Alcesti di andare nell’Ade viene riscritta non come sacrificio ma piuttosto come un rifiuto della colpa e dei confini della relazione patriarcale in cui si trova, che ha come forza trainante la paura della morte. Nel nostro film lei non ritorna, né viene salvata: crea una nuova forma radicale di esistenza in un altro paradigma. L’opera è molto influenzata e direttamente debitrice di The Descent of Alette di Alice Notley, un libro che Alice definisce come un’epica al femminile. L’autrice cerca non solo di raccontare un nuovo tipo di storia, ma di raccontarla con un nuovo linguaggio, in una nuova forma. La discesa di Alette è composta interamente da frasi tra virgolette ed è un’opera che parla di linguaggio e respiro ma anche del viaggio di una donna. In effetti, il viaggio che racconta è in qualche modo un’esperienza vissuta letteralmente o in modo fisico per lo stato di assenza di respiro che produce. È molto somatico. È un viaggio!  Abbiamo risposto alla tua domanda? Il senso di colpa è una perdita di tempo! Audre Lorde ha detto: “Il senso di colpa è una risposta alle proprie azioni o alla mancanza di azioni. Se porta al cambiamento, può essere utile, perché in quel caso non è più colpa, ma l’inizio della conoscenza. Eppure, troppo spesso, il senso di colpa è solo un altro nome per l’impotenza, per una forma difensiva-distruttiva della comunicazione; diventa un modo per preservare l’ignoranza e mantenere lo status quo, è la protezione finale dell’immutabilità.”

Per quanto riguarda il tema del senso di colpa, o della sua assenza, esso è certamente legato a Modesta, la protagonista del romanzo storico di Goliarda Sapienza L’arte della gioia, la storia dell’emancipazione sociale di una donna durante il fermento culturale della Sicilia tra il XIX e il XX secolo. Il processo di autodeterminazione di Modesta implica astute pratiche di manipolazione che le permettono di vivere una vita al di fuori del suo tempo; è l’alter ego di Goliarda, una vera anticonformista.

 

Puoi dirci qualcosa su come questo senso di sacrificio e di colpa si è manifestato nella vostra esperienza personale di donne e persone non binarie che vivono o crescono all’interno di un contesto meridionale?

In quanto donne femministe e persone non binarie che vivono in un contesto meridionale, crediamo che in molti casi le difficoltà che si incontrano nei paesi o nelle città di provincia sono le stesse che si possono trovare anche nei grandi centri urbani. Molte di noi sono cresciute osservando e imitando un modello femminile tradizionale: premuroso, protettivo, con un forte senso di sacrificio verso gli uomini, i figli e la famiglia. Molte di noi, soprattutto da adolescenti, hanno provato un profondo senso di solitudine perché abbiamo associato il futuro alla stessa infelicità che hanno provato prima di noi le nostre antenate.

Potrebbe sembrare anacronistico: nel nostro caso specifico, questi modelli appartengono al passato, perché abbiamo avuto la possibilità (e anche il privilegio) di riscattarci andando a vivere da sole o all’estero oppure studiando (per lo più da autodidatte). Sappiamo bene che tale redenzione è possibile solo in contesti sociali ed economici specifici e privilegiati. Il ruolo tradizionale della donna esiste ancora e resiste nella maggior parte delle zone d’Italia, dove è difficile individuare la propria natura e sfuggire a un destino prefissato. È una questione lunga e complessa sulla quale riflettiamo ogni giorno. Naturalmente, l’autodeterminazione non dipende dalla classe sociale o dall’educazione, ma dalla capacità interiore di contrastare l’urgenza di conformarsi.

La lotta femminista nel Sud deve fare i conti con molti fantasmi atavici; sono numerosi e ognuno di essi ha segnato profondamente la condizione e la psicologia delle donne, imponendo un tributo alla loro vita affettiva, professionale e familiare. A partire dalla lotta contro ogni tipo di discriminazione, le battaglie sul piano pratico sono così tante che abbiamo anche discusso se convenga abbandonarle per poterci concentrare su questioni culturali apparentemente invisibili. Tante femministe iniziano da una decostruzione di sé stesse; molte di noi cercano di fare tabula rasa delle proprie ambizioni e aspettative, mettendo anche in discussione il proprio rapporto con il potere. Quindi, la prima lotta avviene dentro di noi, e consiste nello svuotare di significato ogni ruolo e ogni potere. Facendo riferimento al testo di Claire Fontaine sullo sciopero umano che abbiamo letto insieme durante uno dei nostri incontri, si potrebbe dire che la prima lotta è contro se stessi, e assomiglia molto a un percorso di autocoscienza.

 

Secondo noi questa è la chiave. L’enfasi dello sciopero umano su un approccio totale od olistico attraverso sia la mente che il corpo è del tutto convincente. Per noi, nella nostra pratica, l’emotivo è politico, in altri termini un obiettivo fondamentale è sviluppare un quadro critico intorno alla sfera emotiva. Puoi spiegarci in quale modo il personale e il politico sono collegati nel contesto del vostro collettivo?

Abbiamo parlato molto dell’ambito personale e di quello politico, dell’importanza di partire da noi stesse, anche tenendo conto della vita e degli scritti di Carla Lonzi. Ovviamente abbiamo parlato di noi stesse e del nostro desiderio nascosto di abbandonare la cultura intesa come modello in cui cercare la nostra identità e il nostro rapporto con il potere. Abbiamo cominciato a cercare una voce dentro di noi; forse questo desiderio è impossibile da realizzare in modo coerente, perché il potere ci plasma e a volte ci ipnotizza. Per alcune di noi, il compromesso tra vita professionale e personale porta alla creazione di una distanza tra teoria e pratica, causandoci grande sofferenza; spesso ci sentiamo troppo deboli per compiere gesti radicali come cambiare concretamente le nostre scelte nel mondo o persino la nostra prospettiva. Essere un gruppo ci aiuta a riflettere su questi temi. L’autocoscienza è l’altra. (In italiano non è chiaro cosa si voglia dire, viene da chiedersi “l’altra cosa?”)

“L’hai sentita quella della ‘doppia militanza’? E quella del ‘privato è politico’? E quella del ‘non state facendo abbastanza’? Ho trovato la mia fonte di umorismo.
Io dico io”

Carla Lonzi

Ci ispiriamo molto alla pratica dell’autocoscienza portata avanti dai gruppi femministi italiani negli anni settanta. Abbiamo cercato di raccogliere le tracce di questa pratica, l’incontro più intenso tra il personale e il politico e allo stesso tempo abbiamo cercato di farla nostra. Per noi, il processo di autocoscienza non avviene solo attraverso il linguaggio. Può avvenire attraverso altre pratiche creative meno controllate e più legate a forze oniriche condivise e non mediate. Autocoscienza può significare interagire completamente e senza timore con gli aspetti più “magici” di noi stesse rendendoli visibili e presenti nel gruppo. Inoltre vediamo l’autocoscienza non solo come un processo umano, bensì come un processo ecologico in cui molteplici elementi umani e non umani possono diventare agenti del cambiamento. In breve, tutto ciò che i nostri corpi sperimentano e che non può essere espresso tramite il linguaggio è una parte fondamentale dei processi politici del nostro collettivo. Tuttavia, se vogliamo riscoprire le parti di noi che sono state ‘messe a tacere’ – ispirandoci ad Adrienne Rich – è necessario riconoscere le nostre posizioni in termini di classe, di nazionalità, di razza e di luogo: essere donna è una condizione di marginalità che esiste in relazione a molte altre. Oggi il concetto di intersezionalità è essenziale nella pratica femminista e rileggere il motto “il personale è politico” va proprio in questa direzione: riconoscere le differenze presenti in noi e tra di noi, che ci spingono a lottare sempre gli uni per gli altri.

 

Sia tu che Claire Fontaine avete accennato all’idea del materialismo magico durante le nostre conversazioni e tu in particolare hai parlato della necessità di presentare questa dimensione della tua ricerca in modo più complesso, concentrandoti su azioni specifiche, per esempio quelle compiute dai movimenti delle donne o attraverso casi specifici come le streghe delle Eolie…. Potresti approfondire questo punto?

Ci interessano le metodologie mitologiche e magiche, sia come narrazioni alternative che come espressione di ribellione contro il sistema di valori capitalista e industrializzato. Infatti, queste pratiche hanno una relazione molto intima con la terra, il paesaggio e tutto ciò che circonda l’essere umano, una relazione basata sulla simbiosi e una continua reciprocità ibrida con la materia organica e inorganica. Tali stili di vita non si fondano sull’espropriazione e l’estrattivismo, bensì su una poetica di valori, dove ogni gesto diventa una manifestazione sacra di collettività condivisa e di dialogo che trascende la specie umana e la vita. Paradossalmente, il nostro rapporto con la morte è quasi feticista, rispetto alle modalità spirituali che sono viste come “primitive”. La nostra tendenza ossessiva a oggettivare processi e linguaggi è un atto di imposizione della morte, di meccanizzazione e governo della vita, partendo dal controllo dei corpi. Pertanto, la spiritualità (delle pratiche magiche o mitologiche) può costituire un’alternativa a un ambito sia teorico che pratico basato su un progetto laicizzato, razionalista e disincantato. Silvia Federici descrive il ruolo della profezia per il proletariato nel 1500 come un linguaggio destinato a formulare un programma di rivolte, a evocare e legittimarne le azioni. Non è un caso che la magia o, più in generale, le pratiche spirituali siano diventate alleate dei progetti politici dei movimenti femministi e delle ribellioni partite dal basso. Probabilmente ciò che ci interessa è un’archeologia delle forme di vita (non degli oggetti) che miracolosamente conservano ancora queste conoscenze.

Un esempio possono essere le storie delle majare, le streghe delle isole Eolie, ancora vive nella memoria dei suoi abitanti; durante i nostri incontri, le abbiamo citate e ne abbiamo parlato come un interessante esempio di “soggetto inaspettato”. Le streghe avevano una loro funzione sociale nel bene o nel male, effettuavano malefici oppure erano guaritrici; la majara eoliana è una giovane donna che di notte, all’insaputa del marito, si unge il corpo con un unguento e vola via per divertirsi con le sue compagne majare, per poi tornare la mattina dopo. Tutti gli elementi di questa leggenda sono abbastanza esemplificativi: la majara si trova sia all’interno della casa (di giorno) ma anche fuori di essa (di notte), si riunisce con altre donne, il marito alla fine scopre il suo segreto e sostituisce l’unguento per porre fine alla sua libertà. Nella trama, le dinamiche di potere sono chiare e delineate e il conflitto maggiore insorge quando la donna cerca di cambiare il suo ruolo sociale, senza tuttavia raggiungere il suo obiettivo. Per ora.

 

“Soggetto inaspettato” è una bella espressione, ci piace l’idea delle majare. In quale modo pensi che le majare possano fungere oggi da modello di resistenza o soggettività per voi?

I miti, come i sogni, rivelano desideri e paure. In questo caso, ci piace pensare che il mito delle majare racconti le paure degli uomini e i desideri delle donne, entrambi intrappolati nei loro ruoli fissi. I miti sono il risultato dell’immaginazione collettiva, anche se il finale della storia è sempre lo stesso: la majara cessa di essere una strega e l’ordine viene ristabilito; vediamo il desiderio delle donne di fuggire, di creare un mondo nell’oscurità della notte che si contrappone al mondo diurno, in cui si trovano incatenate ai doveri e sorvegliate dagli uomini; un mondo di solidarietà e divertimento. Miti come questo vengono tramandati oralmente da una generazione all’altra e nessun racconto è mai simile a un altro. Quello che possiamo fare oggi, come atto di resistenza, è riscoprire questi miti e rimodellarli in base alle nostre attuali aspirazioni. Per esempio, possiamo immaginare di scrivere un nuovo finale per loro, in cui le majare non tornano più alla vita normale; un atto performativo che potrebbe avere un effetto sul modo in cui facciamo confluire la realtà parallela descritta nel mito nella nostra pratica collettiva quotidiana.