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© Pompeii Commitment. Archaeological Matters, un progetto del Parco Archeologico di Pompei, 2020. Project partner: MiC.
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Formafantasma. Recycling and Waste Management in Pompeii

Digital Fellowship 07    26•09•2023

Conosciuto per la creazione di connessioni tra indagini basate sulla ricerca e il più ampio contesto del design, il lavoro transdisciplinare di Formafantasma si distingue per il tentativo di analizzare più in profondità le pratiche di design sostenibili ed ecologicamente responsabili, in particolare nell’ambito della società dei consumi e della produzione di massa occidentali. Il duo di designer italiani si concentra su analisi materiche che mirano a tracciare la trasformazione delle risorse naturali in merci e si sviluppano attraverso lo scambio con professionisti ed esperti di varia provenienza. Pertanto, le storie e le ricerche raccontate all’interno dei progetti di Formafantasma combinano spesso una moltitudine di prospettive, al fine di contestualizzare una data materia in tutta la sua complessità. Nell’attività del duo, a essere indagato è anche ciò che accade in seguito al fine vita degli oggetti, grazie al riconoscimento di un valore analogo alla loro obsolescenza, distruzione o riciclabilità dopo l’uso. Nel 2020 il progetto Cambio – esposto prima alla Serpentine Gallery (Londra) e poi al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci (Prato) – analizzava i meccanismi di gestione dell’industria del legno ed evidenziava come un approccio tentacolare alla ricerca potesse generare pratiche progettuali responsabili, in grado di svolgere un ruolo rigenerativo dal punto di vista ambientale. Tra il 2017-2019 Ore Streams, commissionato da NGV e Triennale di Milano, ha indagato invece il tema del riciclo dei rifiuti elettronici, a partire dalla considerazione della materia, anche quando obsoleta, quale elemento in continua trasformazione.
Con un processo analogo, il progetto proposto da Formafantasma per Pompeii Commitment. Archaeological Matters – Digital Fellowship si sviluppa attraverso un dialogo approfondito con l’archeologo Marco Giglio e guarda alla gestione dei rifiuti a Pompei mettendo in discussione la nozione stessa di scarto. La storia sismica che precedette la fatale eruzione del 79 d.C. e la vivacità delle trasformazioni culturali e socio-politiche di Pompei – che spesso determinarono cambiamenti nei modi dell’abitare e di conseguenza nell’organizzazione dello spazio – fecero della città un importante terreno di sperimentazione nel riciclo dei materiali, a causa della necessità di gestire grandi quantità di detriti edilizi. Insieme a Giglio, Formafantasma presenta una sezione di una domus immaginaria – dalle fondamenta fino ai livelli superiori dell’edificio – osservando come a Pompei i materiali da costruzione provenissero spesso da fabbricati precedenti o da oggetti d’uso quotidiano, e persino come i materiali organici si trasformassero in elementi costruttivi o fossero utilizzati come riempitivi nelle fondamenta. Il dialogo tra i designer e l’archeologo mette così in luce la presenza a Pompei di una “architettura del riciclo”, fatta di ricostruzioni e riadattamenti di materiali e detriti esistenti. La Digital Fellowship analizza altresì il Parco Archeologico di Pompei come luogo di materia vivente, in continuo mutamento, trasformazione e rigenerazione. Come già affermato da Formafantasma: “La sperimentazione è parte integrante del nostro lavoro. Quando avviamo un progetto, non abbiamo necessariamente un’idea prestabilita di dove arriveremo. Per noi sperimentare significa seguire un determinato processo o una forma di ricerca che produce risultati inaspettati e ci permette di sviluppare una posizione nuova e originale rispetto alle nostre idee iniziali. È un modo per imparare”1. Si tratta del medesimo approccio presente in Pompeii Commitment. Archaeological Matters – Digital Fellowship, programmazione animata dalla volontà di stimolare metodologie di lavoro che accolgano e incoraggino il raggiungimento di risultati aperti e sperimentali, ottenuti attraverso progetti basati sulla ricerca e sullo scambio con esperti nel campo dell’archeologia. – CA


1 Formafantasma, Cambio, a cura di Riccardo Badano e Rebecca Lewin con Natalia Grabowska, pubblicato da Koenig Books e Serpentine Gallery, Londra 2020.

1. Immagini:

Formafantasma
Ore Streams, 2017-2019
immagini del corpo di lavoro (animazioni, sculture, tassonomie e disassemblamenti)
Courtesy gli Artisti

2-12. Testo:

Formafantasma in conversazione con Marco Giglio, 2023
Courtesy gli Artisti, Marco Giglio e il Parco Archeologico di Pompei

13. Immagini:

Formafantasma
Immagini d’archivio scattate a HKS Metals, rappresentative del processo di ricerca per Ore Streams riguardanti l’industria del riciclo di metalli e componenti elettronici, 2017
Courtesy gli Artisti

14. Video:

Formafantasma
Ore Streams, 2019
visual essay
25 min
Courtesy gli Artisti

Immagine in home page: Formafantasma, Disassembling, 01:05:58’’- Ore Streams, 2018. Courtesy gli Artisti

Formafantasma è uno studio di design basato sulla ricerca che indaga le forze ecologiche, storiche, politiche e sociali che plasmano la disciplina del design oggi. Lo studio è stato fondato nel 2009 da Andrea Trimarchi e Simone Farresin. Il suo obiettivo è facilitare una comprensione più profonda dei nostri ambienti naturali e costruiti e proporre interventi trasformativi attraverso il design e le sue possibilità materiali, tecniche, sociali e discorsive. Con sede a Milano (Italia) e Rotterdam (Paesi Bassi), Formafantasma abbraccia un ampio spettro di tipologie e metodi, dal design del prodotto al design spaziale, dalla pianificazione strategica alla consulenza progettuale.
La visione lungimirante dello studio sulle sfide che devono affrontare il design, la cultura, l’ambiente e la società è valsa il patrocinio di una serie di clienti internazionali come Lexus, Flos, Fendi, Max Mara, Hermes, Droog, Nodus Rug, J&L Lobmeyr, Cassina, Bitossi, Established and Sons, La Biennale di Venezia, Rijks Museum, Dzek, Ginori, Hem, Maison Matisse, Bulgari, Samsung, Rado, Roll and Hill, Galleria Giustini / Stagetti, La Rinascente, Gallery Libby Sellers, tra gli altri. Oltre ai lavori per i clienti, i loro progetti sono stati presentati, pubblicati e acquisiti nelle collezioni permanenti di musei internazionali tra cui: il MoMA e il Metropolitan Museum di New York; l’Art Institute Chicago; il Victoria and Albert Museum di Londra; il Musée National d’Art Moderne, il Musée des Arts Décoratifs, CNAP, Fondation Cartier e Centre Pompidou di Parigi; lo Stedelijk Museum di Amsterdam; il MAK di Vienna; il Centraal Museum di Utrecht; il Mudac di Losanna; il Mint Museum of Craft + Design, Charlotte, North Carolina; il Museo MAXXI di Roma; Triennale di Milano; il LACMA, Los Angeles e altri.


Marco Giglio è laureato in Lettere classiche, nel 2004 ha conseguito la specializzazione in Archeologia presso l’Università della Basilicata e nel 2009 il dottorato di ricerca in Archeologia, occupandosi dello stadio di Cuma. Dal Maggio 2021 è Ricercatore a T.D. in Metodologia della Ricerca Archeologica (L-Ant/10) presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, con abilitazione per la seconda fascia e prima fascia. È segretario di redazione della rivista di fascia A “AION Annali di Archeologia e Storia Antica” dell’Università L’Orientale e membro del Comitato di Redazione delle riviste scientifiche “Vesuviana” e “Puteoli”. Co-dirige la missione archeologica dell’Orientale operante alle terme Stabiane di Pompei, in regime di concessione dal Ministero della Cultura, ed è responsabile per conto della stessa Università del progetto di studio e di pubblicazione dei complessi termali di Agnano e Via Terracina a Napoli. Dal 2021 è direttore della missione archeologica dell’Orientale presso la villa imperiale del Pausilypon (Napoli) e co-dirige quella presso il foro di Cupra Marittima (Ascoli Piceno), entrambe in regime di concessione dal Ministero della Cultura.
Specialista dell’archeologia del mondo romano, ha concentrato i propri interessi scientifici sull’architettura, l’urbanistica e le produzioni ceramiche, soprattutto in area vesuviana e flegrea. È autore di una monografia su un isolato di Pompei e sullo stadio di Cuma, nonché di numerosi articoli, pubblicati in italiano ed inglese.
Come libero professionista è stato responsabile di numerosi interventi di scavo a Napoli (Castel Nuovo, chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli) ed in Campania. Dal 2015 al 2017 è stato il responsabile delle attività archeologiche presso l’insula VIII, 2 (civici 1-16) di Pompei, nell’ambito del Grande Progetto Pompei dedicato al restauro del piano terra degli edifici che si affacciano sull’insula meridionalis della città. Dal settembre 2018 al maggio 2021 ha lavorato come archeologo, per conto di Ales Arte Lavoro e Servizi S.p.A., nel servizio di manutenzione programmata del Parco Archeologico di Pompei.

Pompeii Commitment

Formafantasma. Recycling and Waste Management in Pompeii

Digital Fellowship 07 26•09•2023

Formafantasma Allora Marco, innanzitutto grazie mille per esserti reso disponibile a fare questa conversazione con noi. Oggi vorremmo parlare con te, nel senso più profondo, della materia come una realtà in costante trasformazione, che pertanto elude l’idea stessa di rifiuto o di scarto. Quando parliamo di rifiuto e di scarto vuol dire che già decidiamo cosa ha valore e cosa non lo ha. Nel momento in cui definiamo un fine vita, non lasciamo più che la materia viva di potenzialità. Vogliamo parlare con te di questo concetto, ma con un caso studio molto preciso: Pompei. Ci sembra un esempio emblematico dell’idea della materia che vive in costante trasformazione. Per prima cosa mi piacerebbe chiederti di presentarti, ma soprattutto vorrei capire di cosa ti occupi nel contesto di Pompei, qual è la tua formazione e come ti sei ritrovato a occuparti di questi temi.

Marco Giglio Sono un archeologo classico, mi sono formato all’Università di Napoli “L’Orientale”, dove attualmente lavoro come ricercatore. Ho iniziato a lavorare in vari contesti archeologici e dal 2004 faccio ricerca a Pompei, inizialmente nell’ambito di missioni archeologiche de L’Orientale. In seguito, dal 2018 fino al 2021, ho partecipato a un progetto riguardante la manutenzione programmata di Pompei, che consiste nel prendersi cura e lavorare per anticipare la fase del restauro, cioè per conservare Pompei senza restaurarla. Perché già quando si fa un’attività di restauro, di fatto si sta modificando, si sta creando un cambiamento nel sito antico. Dopo il 2021 sono tornato all’università, dove attualmente lavoro, e ho avviato i miei progetti di ricerca archeologica a Pompei, portando avanti varie attività di scavo e ricerca, nonché di studio ed edizione di porzioni della città antica, e occupandomi non solo della Pompei del 79, cioè dell’ultima fase di vita di Pompei, ma soprattutto della storia edilizia della città più antica, dalla fondazione, dall’età arcaica, fino all’arrivo della colonia sillana nell’80 a.C. Momenti, e questo è molto interessante rispetto all’oggetto della nostra conversazione, in cui si hanno tantissime trasformazioni nell’ambito della città, che però non prevedono la creazione sistematica di rifiuto, bensì il continuo riutilizzo di materia. Materia che può avere svariate funzioni all’interno dell’edilizia pubblica e soprattutto privata.

Formafantasma Fantastico, mi sembra che tu sia già entrato nel cuore della nostra conversazione. Prima di addentrarci ulteriormente e di parlare di materia, faccio un piccolo passo indietro, ma credo che sia fondamentale per il nostro dialogo. Quando parliamo di Pompei ritengo sia importante considerare anche la condizione geologica della zona in cui Pompei si situa e i numerosi terremoti che hanno reso il territorio e il tessuto urbano instabili e pertanto in continua trasformazione. Mi riferisco ovviamente a Pompei prima dell’eruzione vulcanica che poi ha reso la città quella che conosciamo oggi. Ci potresti spiegare qual era la condizione specifica che rendeva la città così, anche forzatamente, in continua trasformazione?

Marco Giglio Da un punto di vista geologico e vulcanologico l’area di Pompei è stata tranquilla e sicura per un lungo periodo. Non conosciamo in età storica eruzioni o grandi terremoti. Il più antico, prima di quello distruttivo dell’eruzione del 79, risaliva all’incirca a 2.000 anni prima. Quindi sicuramente non se ne aveva memoria, tanto che non si riconosceva il Vesuvio come vulcano, ma come una delle tante vette che caratterizzavano il paesaggio. Solo gli ultimi momenti di vita della città, dal 62-63 d.C. al 79, sono stati caratterizzati da un primo grande sisma che ha creato ingenti danni in città e che noi conosciamo dalle fonti, perché riportato anche per Napoli e le altre città vesuviane, pesantemente colpite. Da qui partì una vasta opera di ricostruzione, cui a loro volta seguirono probabilmente altri sismi avvenuti negli anni o nei momenti precedenti all’eruzione del 79, l’evento che ha cristallizzato la vita della città, cioè che l’ha congelata in un momento specifico e ce l’ha restituita così com’era al momento della distruzione. Le trasformazioni, invece, sono dovute maggiormente a cambiamenti etnici, socio-politici e anche cronologici, cioè potremmo dire di usi e costumi, di modi dell’abitare, di mode alimentari, di contatti commerciali, che portano a un miglioramento delle condizioni della città. Il rientrare nell’orbita di Roma porta Pompei ad accedere a una koinè commerciale che fa sì che affluiscano materiali nuovi e una ricchezza nuova.

Formafantasma Ora cerchiamo di fare un’osservazione sulla gestione dei detriti o dei rifiuti a Pompei dal punto di vista contemporaneo. In precedenza ci hai detto che è difficile fare una ricostruzione perfettamente attendibile della realtà della città, perché lo dobbiamo fare con i documenti e i reperti che effettivamente si conservano. È difficile parlare di esistenza di una vera e propria struttura di gestione dei rifiuti, ma possiamo parlare perlomeno di una figura dedicata, e sappiamo che esisteva nella città, che si doveva occupare della raccolta dei rifiuti. È corretto? Puoi dirci qualcosa in più su questa mia osservazione e parlarci anche dell’idea stessa di discarica, se esiste nel modo convenzionale in cui lo intendiamo noi o se la discarica aveva una natura diversa nella città di Pompei?

Marco Giglio Premetto che non conosciamo Pompei in tutta la sua estensione, poiché solo due terzi della città sono stati scavati. Quindi possiamo farci un’idea per quello che abbiamo, che è molto, però teoricamente potremmo avere situazioni totalmente diverse nella parte restante della città. In più noi conosciamo bene ciò che è all’interno delle mura, mentre ciò che è fuori, l’immediata parte esterna della città, non la conosciamo. Perciò non sappiamo se ci fossero punti di raccolta, discariche, punti di smaltimento di materiali all’esterno dell’area urbana. E questo è sicuramente un limite. In più dobbiamo aggiungere che forse la visione che abbiamo di Pompei al 79 è un po’ falsata da ciò che era avvenuto immediatamente prima, e cioè dalla grande distruzione causata dai vari terremoti che avevano colpito la città e quindi dalla grande ricostruzione che era in atto. Cioè, un conto è lo smaltimento dei quotidiani rifiuti o dei piccoli detriti e un conto è liberare un’area dove interi isolati erano stati danneggiati da crolli ed erano completamente in fase di ricostruzione. In questo caso si ha bisogno di una struttura organizzativa totalmente diversa, con magistrati dedicati che hanno compiti specifici per la ricostruzione. Se dovessimo trovare un parallelo moderno, potremmo farlo con quanto avviene durante le ricostruzioni post-sismiche ancora oggi. Io ho vissuto per scopi di ricerca archeologica il periodo del terremoto dell’Aquila, dove siamo stati a lavorare due mesi dopo il sisma. Vedere l’organizzazione, lo sgombero delle macerie, la creazione di depositi temporanei mi ha fatto pensare a come doveva essere il periodo pre-eruzione a Pompei, anche nella riorganizzazione sociale ed economica della città. Perché dobbiamo ricordarci che un grande intervento edilizio di ricostruzione ha bisogno di un’ingente quantità di manodopera, cui è necessario fornire alloggio e vitto. Forse questo è uno dei motivi per cui molte case pompeiane, ancora una volta si tratta di una trasformazione, nell’ultima fase edilizia diventano botteghe, ristoranti, hospitia.
Se ci pensiamo, Pompei ha un numero di thermopolia, cioè di punti di ristoro, maggiore rispetto a tante altre città antiche. È un’anomalia, ma probabilmente la possiamo ricondurre proprio a questa fase di grande trasformazione che era in atto nella città.

HISTORIAE 32 — Termopolio, tardo II a.C. – inizi I a.C., Pompei, Regio V Parco Archeologico di Pompei. Photo Parco Archeologico di Pompei

Formafantasma Certo, c’era la necessità di servire le esigenze di una manodopera che stava lavorando alla ricostruzione della città. È proprio per questo che ti ho posto la domanda sui terremoti. Perché questo periodo storico, caratterizzato dal grande sisma e poi dai successivi di minore portata prima dell’eruzione, suscita, rispetto al senso di sicurezza che esperiamo nell’era contemporanea, una forte fascinazione. Diventa un caso studio interessante di riutilizzo di materiali e di luoghi. Poco fa hai accennato al fatto che il tessuto urbano della città è cambiato molto, proprio per via di questi eventi traumatici, ma anche al fatto che molti di quei materiali e detriti, che in parte potremmo definire rifiuti o risultati di un processo traumatico, siano diventati veri e propri strumenti per la ricostruzione. Credo sia interessante analizzare tale fenomeno, perché si tratta di un caso studio peculiare. Vediamo anche gli stili architettonici che si intersecano, materiali che nascono con una funzione e vengono completamente ricontestualizzati. Ci sono due diversi livelli attraverso i quali possiamo affrontare quest’idea del rifiuto e della sua trasformazione: c’è il rifiuto, diciamo così, urbano, cioè gestito da una figura simile al netturbino contemporaneo, e poi ci sono diverse maestranze che si occupano della ri-gestione di detriti architettonici e non solo, dovuti agli eventi traumatici dei terremoti. È proprio da questo punto di vista che è interessante analizzare come fosse condotta la ricostruzione e come tali materiali assumessero nuove funzioni. Per quanto riguarda Pompei, potremmo effettivamente parlare di un’architettura del riciclo, nel senso che le molte ricostruzioni sono effettivamente state fatte grazie a un continuo riadattamento di materiali e detriti esistenti. Mi piacerebbe immaginare insieme a te di vedere un’architettura della città di Pompei in sezione, e analizzare, partendo dalle fondamenta fino ad arrivare agli strati superiori degli edifici, come alcuni di questi materiali venissero da precedenti architetture o da oggetti d’uso e persino come i materiali organici si siano trasformati in elementi costruttivi dello spazio o siano stati utilizzati come riempimento delle fondamenta. Penso a una cosa di cui mi hai parlato in precedenza, cioè al ritrovamento di rifiuti di tipo organico sotto le fondamenta di una locanda, in particolare di un quarto di bue. Possiamo fare insieme questo esercizio e osservare la casa in sezione partendo dalle fondamenta?

Marco Giglio Assolutamente sì. Bisogna considerare la fase di ricostruzione come un momento in cui è necessario da un lato smaltire i materiali, dall’altro ricostruire edifici, approfittare in alcuni casi per modificarne le planimetrie o ampliarli. Può esserci il caso della famiglia caduta in disgrazia che ha la necessità di vendere un lotto abitativo al vicino e lo espande. Oppure può verificarsi il bisogno di modificare totalmente la planimetria di un edificio, radendo al suolo ciò che c’era prima e costruendo al di sopra, raccordando i piani pavimentali e creando nuovi riempimenti e rialzamenti di quota all’interno dell’edificio stesso. È il caso, questo, dei nuovi scavi che abbiamo effettuato lungo vicolo del Lupanare nelle tabernae delle Terme Stabiane, tabernae che non erano state ancora completate al momento dell’eruzione. Qui vi era sostanzialmente la necessità di ottenere un piano interamente alla stessa quota, motivo per cui la casa più antica viene rasa al suolo fino al livello dei pavimenti, ottenendo un’unica piattaforma su cui poggiare le nuove strutture murarie, e questo spazio dai 40 ai 70 cm tra il vecchio pavimento e la nuova quota da realizzare viene riempito con detriti. Detriti stranamente selezionati: generalmente troviamo poca muratura in connessione, ma soprattutto pietre sciolte, elementi prelevati da vecchie murature in opera incerta, poco intonaco che probabilmente veniva tritato e riutilizzato per trasformarlo in malta, pochissime tegole, perché solitamente questi sistemi di copertura potevano essere ritagliati eliminando l’aletta e trasformati in mattoni per rifare i muri in opera laterizia ritrovati in tutta Pompei nella fase finale di vita. In questo caso sono presenti anche diversi quarti di animali. Una cosa alquanto anomala, che non riusciamo bene a spiegarci: forse si trattava del prodotto di una macellazione, i cui rifiuti erano stati gettati e nascosti sotto e all’interno del pavimento? Stiamo riflettendo sul motivo per cui abbiamo rivenuto questo tipo di rifiuti, ma ciò che è certo è che si trattava di una discarica in città. Uno smaltimento di rifiuti, in questo caso di rifiuti solidi urbani, che sono stati nascosti o riutilizzati nel riempimento insieme a tanti altri materiali. Bisogna tener presente che il materiale edilizio è sempre riutilizzabile. Il materiale edilizio antico è fatto di elementi litici di varia natura. A Pompei abbiamo il calcare del Sarno, la cruma di lava, la lava e il tufo di Nocera: quattro tipi litici di diversa provenienza e diversa resistenza al carico, diverso peso, diversa connotazione cronologica, che però è possibile riutilizzare in vario modo anche successivamente, così come i laterizi. Quindi il detrito edilizio serve. Gli intonaci possono servire come aggregante, una volta sminuzzati all’interno della malta. Ciò che non serve è la ceramica. Le anfore si possono teoricamente trasformare e riutilizzare, quindi sostanzialmente non vedo, se non per i materiali organici, molti elementi che possono diventare rifiuto…

Formafantasma Esatto, siamo di fronte a una palette di materiali molto ristretta, che non può di fatto diventare rifiuto perché può essere continuamente e facilmente riutilizzata. La cosa interessante a livello architettonico è che ci sono esempi di spostamento di utilizzo dei materiali perché la palette dei materiali è relativamente ridotta. Penso per esempio alle anfore in terracotta riutilizzate come strumenti per la conduzione dell’acqua, sia nel sottosuolo sia come grondaie. La cosa più interessante è che c’è uno spostamento di funzione, ma l’oggetto, la materialità dell’oggetto, permette questo tipo di introduzione immediata. Quindi c’è un continuo spostamento di funzione, dovuto anche al fatto di poter disporre di una gamma di materiali tutto sommato abbastanza ridotta: pochi ma decisamente flessibili nel loro riutilizzo. Penso anche ad alcuni elementi decorativi e scultorei che mutano nel tempo e vengono ricontestualizzati accostando stili diversi tra loro. Puoi citare alcuni esempi a questo proposito?

Marco Giglio Per esempio, questa struttura situata nella Regio IX, insula 6 di Pompei è un muro totalmente nuovo, costruito dopo il 62, dopo il terremoto, che delimita un nuovo spazio all’interno dell’edificio. A prima vista sembra un muro di mattoni. I muri di mattoni normalmente hanno dei piani totalmente orizzontali. Ed è ciò che si vede nella parte bassa dell’immagine. Se si osserva con attenzione, nella parte superiore si vede invece un’irregolarità della tessitura muraria, che è molto curva. Questo perché tutta la muratura è fatta di frammenti di grandi contenitori per derrate alimentari, detti dolia, ridotti in frantumi e riutilizzati come materiale da costruzione. Credo che questo sia un esempio eccezionale della capacità di riutilizzare il materiale nell’antichità. In questo caso disponevano di vasi, che sono stati rotti, ridotti in piccoli pezzi e riutilizzati come paramento murario. Tanto alla fine il tutto non sarebbe stato visibile, perché totalmente ricoperto dall’intonaco, quindi non c’era differenza tra l’utilizzare mattoni nuovi o elementi di recupero.

Anfore riutilizzate come supporto per intonaco, circa 62 d.C., Pompei, Regio IX, insula 6, Parco Archeologico di Pompei. Courtesy Marco Giglio

Formafantasma È qui che l’idea del materiale come elemento in continua trasformazione si vede in modo evidente. Si rigenera e diventa qualcos’altro. Non è un rifiuto, ma è semplicemente la materia che viene letta per quello che è e in quanto tale può essere riapplicata in modo anche molto diretto. È la stessa cosa che accade, come dicevamo prima, con le grondaie e con gli impianti di dispersione delle acque nel sottosuolo con le anfore.

Marco Giglio Ti mostro un altro esempio. Qui hai un muro di delimitazione di un armadio a muro in una casa nella IX.7, 21-22, realizzato ancora una volta dopo il terremoto del 62, pre-eruzione. Come vedi, è difficile definire la tecnica della muratura, perché sono presenti pietre di calcare bianco, pietre di lava, calcare del Sarno, cruma di lava, vari elementi, il che significa che si tratta sempre di materiali di recupero. Sono inoltre presenti mattoni e, sul margine destro dell’immagine, due tegole di gronda, cioè due grondaie, due gocciolatoi. In quello superiore si vedono ancora le palmette che decoravano la grondaia e probabilmente l’imbocco di una testa leonina che fungeva da gocciolatoio, mentre quello inferiore è un po’ più semplice. Sono due elementi stilisticamente diversi, che presumibilmente in precedenza decoravano un peristilio o un atrio di una casa pompeiana, forse danneggiati, che il proprietario di questo nuovo edificio prende, recupera e riutilizza all’interno della muratura. Quindi di fatto questi elementi, da una funzione decorativa e funzionale, cioè quella di grondaia, diventano un semplice materiale edilizio.

Muro di delimitazione realizzato con materiali di riciclo, circa 62 d.C., Pompei, IX.7, 21-22, Parco Archeologico di Pompei. Courtesy Marco Giglio

Formafantasma Questa forma di riutilizzo e di riciclo si estende anche a elementi decorativi, che conservano la propria funzione ornamentale. Magari opere scultoree si trasformano e vengono riadattate nel tempo per diventare nuove forme scultoree, in cui l’autore lavora sopra un’opera esistente.

Marco Giglio Penso al caso del mosaico di Orione. Tra i nuovi mosaici emersi durante gli scavi della Regio V di Pompei, che sono diventati molto famosi per la ricchezza degli apparati decorativi, ci sono questi due mosaici cosiddetti di Orione, perché raffiguranti l’omonimo mito. Si tratta di un mosaico in tessellato policromo che viene inserito in un secondo momento all’interno di un pavimento con un motivo decorativo totalmente diverso, in cocciopesto con puntinato bianco. Se si osserva con attenzione lo schema decorativo del puntinato, questo sembra non essere in rapporto con il mosaico, bensì essere interrotto dal mosaico stesso. Ciò significa probabilmente che il mosaico o era stato inserito successivamente alla realizzazione del pavimento, perché in una seconda fase di riammodernamento viene acquistato e viene riutilizzato all’interno della decorazione della casa, oppure si tratta ancora una volta della trasformazione di uno spazio. Questo tipo di trasformazioni è molto frequente. Possono essere di tipo più articolato, come in questo caso, con l’inserimento di mosaici che raffigurano tra l’altro un mito molto complesso e poco diffuso, oppure possono essere più semplici, come nei casi in cui è presente un pavimento del genere che viene ridecorato inserendo tessere di marmo policromo, creando un nuovo schema decorativo e abbellendo un rivestimento stilisticamente vecchio ma che si desidera mantenere.

Formafantasma Certo, anche perché gli schemi decorativi e le mode non erano fugaci come quelle attuali, ma avevano tempistiche decisamente più lunghe. Esistono schemi decorativi che rimangono invariati per 200 anni e poi mutano nel tempo, magari forzatamente in conseguenza di eventi traumatici, come appunto un terremoto, dopo i quali la ricostruzione spinge verso la trasformazione di stili diversi.

INVENTARIO 10 — Mosaico di Orione, tardo II a.C. – inizi I a.C. mosaico, Pompei, Casa di Giove (V) Parco Archeologico di Pompei. Photo Parco Archeologico di Pompei

Marco Giglio Però in alcuni casi abbiamo anche la conservazione, potremmo quasi dire il restauro di uno stile antico. Per esempio nella Casa di Epidio Sabino, che conserva un peristilio in primo stile, quindi con una decorazione più antica di quasi 200 anni rispetto al momento dell’eruzione, una porzione di quella decorazione è stata rifatta in stile. Non sappiamo precisamente quando, ma viene rifatta in stile per mantenere l’unitarietà del primo stile. Evidentemente aveva un tale significato simbolico per il proprietario della casa al 79, che questi sceglie di mantenere quella vetustà della decorazione. Come se noi, vivendo in un palazzo del Quattrocento, decidessimo di mantenerne tutte le decorazioni. Pensiamo al caso emblematico della Casa del Fauno, che arriva al 79 immutata o quasi del tutto immutata nelle sue decorazioni per 200 anni. Abbiamo poi tanti altri esempi invece, nei quali o per costrizione, a causa di danneggiamenti, o per scelte stilistiche totalmente innovative, la decorazione viene cambiata. 

Formafantasma Certo. A livello storico potresti definire dei cicli stilistici e temporali oppure la situazione è molto più organica? Faccio questa domanda perché penso al vasellame di epoca romana, in cui è possibile distinguere due periodi, uno della ceramica tendente al rosso e uno della ceramica nera, entrambi durati circa 500 anni. Riesci a fare un simile paragone anche nel caso di Pompei o la questione è più complessa? 

Marco Giglio A livello di ceramica, come dicevi, siamo in una situazione di koinè e di globalizzazione. Tranne che per differenze di luogo di produzione, di fatto la ceramica che trovi a Roma, a Neapolis, a Pompei o nelle Marche, così come sul limes germanico, dall’età augustea in poi è di fatto la stessa. Sostanzialmente ci sono grandi centri produttivi che esportano più o meno in tutto il bacino del Mediterraneo gli stessi manufatti. E questo da un punto di vista archeologico per noi è molto utile, perché si ha un modo per fare un cross dating tra un sito e l’altro. Dal punto di vista delle decorazioni, Pompei ha consentito una suddivisione in stili, i quattro stili decorativi pompeiani, che corrispondono ad altrettanti momenti cronologici ben definiti, cioè del momento della creazione e del primo uso di queste decorazioni. Poi, ovviamente, la loro durata nel corso del tempo può essere maggiore, però sappiamo che tra la fine del II secolo a.C. e l’inizio del I secolo a.C. si diffonde il primo stile. Il secondo stile coincide con il periodo seguito alla creazione della colonia romana, fino all’incirca all’età augustea, la fine del I secolo a.C. Il terzo stile va dagli anni ’30 del I a.C. fino alla tarda metà del I secolo d.C., orientativamente il periodo immediatamente precedente al terremoto. Il quarto stile è quello dell’ultima fase di vita di Pompei. Questi elementi sono utili anche per individuare una cronologia degli edifici su cui tu stai lavorando. Questi corrispondono a mode che si diffondono a Pompei, che noi possiamo studiare bene a Pompei ed Ercolano, perché qui si ha uno stato di conservazione eccezionale. Tuttavia, in uno dei nostri recenti scavi effettuati in un tempio a Cupra Marittima, nelle Marche, abbiamo trovato materiali pittorici e decorazioni, in età augustea e tardo-augustea, simili in molti aspetti alle decorazioni presenti nelle case pompeiane. Ciò significa che ancora una volta siamo di fronte a una koinè decorativa in tutto il mondo romanizzato. E ancora una volta, anche dal punto di vista delle tecniche edilizie, delle creazioni dei paramenti, si hanno differenze tecniche che corrispondono più o meno a differenze cronologiche.

Formafantasma Vorrei tornare alla casa cui abbiamo fatto riferimento prima, l’architettura ipotetica da vedere in sezione. E vorrei parlare del luogo di estrazione del materiale per la costruzione e di come la casa veniva costruita. In modo specifico mi riferisco alla pozzolana e alla costruzione di pozzi estrattivi direttamente al centro della casa e poi al ruolo dei detriti per chiudere quel pozzo estrattivo attorno al quale l’architettura veniva creata. Mi sembra un’idea molto interessante di costruzione qui ed ora. Si scava un pozzo estrattivo, attorno a esso si costruisce la casa e poi questo viene chiuso con detriti.

Marco Giglio Noi dobbiamo pensare che al di sotto dei piani pavimentali di Pompei sono presenti questi bacini eruttivi, questa stratigrafia eruttiva fatta da cineriti, sostanzialmente pozzolane, quindi materiale estremamente utile nella creazione di malte. Ora, abbiamo trovato, negli ambienti di molti edifici pompeiani ricostruiti dopo il 62, dopo il terremoto, grandi fosse molto profonde (in molti casi non siamo riusciti a scavarle completamente), che intercettano i livelli eruttivi, scendendo di 2, 3 metri in profondità e occupando quasi l’intera superficie dell’ambiente in cui vengono realizzate, che sono riempite con detriti edilizi, ceramica, scarti di materiali. Probabilmente la loro funzione, appunto, è di creare il pozzo estrattivo per il materiale edilizio, per la pozzolana, direttamente nel luogo in cui si dovevano effettuare i lavori, economizzando al massimo due fattori estremamente onerosi in un cantiere: l’approvvigionamento del materiale e il suo smaltimento. 

Formafantasma Infatti, credo che qui la questione economica sia centrale, che vi sia una specie di economia progettuale legata allo smaltimento dei detriti, alla costruzione dell’architettura. 

Marco Giglio In una fase di ricostruzione dobbiamo immaginare sicuramente l’esistenza di grandi cantieri pubblici. Pensiamo in alcuni casi alle facciate lungo le strade principali ricostruite dopo il terremoto che sono tutte similari nelle tecniche utilizzate: cosa che potrebbe essere segno di un appalto di ricostruzione pubblica. Ma poi ci sono i grandi interventi privati, e in quel caso è l’economia della singola famiglia che deve sostenere il peso della ricostruzione.

Formafantasma Pensi che questa attitudine al riutilizzo generi anche una certa informalità e flessibilità degli spazi privati? O meglio, forse anche la condizione di precarietà dopo il primo grande terremoto e prima dell’eruzione ha portato a questa fluttuazione dello spazio urbano? Mi riferisco a come parti di architettura che appartenevano a un nucleo domestico vengano cedute a un’altra famiglia o come l’apertura di una porta o di un varco tra un’architettura e l’altra connetta due edifici trasformandoli in un nuovo nucleo abitativo. Mi sembra che questo fenomeno sia abbastanza visibile a livello urbanistico a Pompei.

Marco Giglio È estremamente visibile, è un qualcosa che però parte già nelle fasi pre-terremoto. Già abbiamo trasformazioni con una mobilità spaziale molto più accentuata rispetto a quella che abbiamo noi in epoca moderna, dove puoi assistere al frazionamento di un grande appartamento, suddiviso in due o più parti, o all’unione di due unità catastali diverse. Raramente si assiste per esempio all’acquisto del salone del vicino e quindi a una trasformazione così netta di planimetrie di edifici. Mentre invece a Pompei questo è un fenomeno che vediamo molto spesso, cioè trasformazioni che possono attuarsi o nell’organizzazione degli spazi interni (porte che vengono chiuse e aperte in un’altra posizione), o nella cessione di porzioni di case, o anche nell’unione, senza raderli al suolo, di più lotti abitativi, raccordati da nuovi spazi creati appositamente. E tutte queste trasformazioni sono ben leggibili nella tessitura muraria, che conserva tutte le tracce delle modifiche apportate: aperture di porte, chiusure, aperture di finestre, spostamenti e suddivisioni di ambienti con la creazione di nuovi tramezzi, oppure abbattimenti di muri, con quelli che erano per esempio un corridoio o una stanza che diventano una stanza più grande perché si abbatte il muro del corridoio e si chiudono anche le porte di comunicazione. Se giri per Pompei in zone in cui l’apparato decorativo non si è conservato, puoi leggere nettamente queste trasformazioni. Considera che invece tutte queste trasformazioni all’antico non erano invece visibili, perché era tutto sempre ricoperto dall’intonaco e quindi si mascheravano le modifiche.

Formafantasma Da persona che si occupa di progettazione nell’epoca contemporanea, potrei facilmente pensare a questa realtà come una questione quasi romantica, dove le persone vivevano in una specie di comunità in cui erano disposte a cedere spazio e ad avere una strutturazione dello spazio urbano molto più organica e meno definita, meno fondata forse sulla proprietà privata rispetto a quella contemporanea. Sto romanticizzando il passato o effettivamente c’era una gestione più informale e su una scala molto più umana della proprietà privata? O semplicemente questa informalità era un sistema di regolamentazione del sistema urbano?

Restauri di strutture murarie più antiche, circa 62 d.C., Pompei, Parco Archeologico di Pompei. Courtesy Marco Giglio
Sovrapposizioni di intonaci, circa 62 d.C., Pompei, Parco Archeologico di Pompei. Courtesy Marco Giglio

Marco Giglio Domanda molto complessa. Tocca ambiti che non sono propriamente quelli dell’archeologo…

Formafantasma Possiamo dire nell’intervista che appunto non sei un esperto, ma puoi formulare un’ipotesi.

Marco Giglio Sicuramente c’è una forte presenza della proprietà privata, con una regolamentazione degli spazi, così come della cura degli spazi pubblici da parte del privato. Il privato gestisce la facciata della casa e il marciapiede antistante, se ne prende cura, e per questo abbiamo tante modifiche anche nella tipologia di marciapiedi. Quindi c’è una forte componente privata, e all’interno delle case c’è una forte componente di gestione privata. Probabilmente, però, c’è una minore rigidità nel concetto di scambio all’interno della proprietà privata. Cioè immagino che se hai la necessità di ampliarti, puoi approfittare del vicino, o perché è un tuo familiare (non sappiamo quanti lotti fossero di proprietà dei medesimi nuclei di proprietari), o perché cade in disgrazia e quindi riduce e trasforma la propria attività, la propria abitazione in attività commerciale, non ha più bisogno di quegli spazi e li cede. Questo però è un ambito nel quale posso formulare ipotesi. Io sono più abituato a leggere le tracce per costruire le ipotesi, ma non vado oltre. 

Formafantasma Mi sembra interessante ciò che dici sulla gestione della facciata e del marciapiede, perché ciò ovviamente significa che a livello urbanistico quello che ci troviamo davanti è anche una specie di continuo collage di realtà diverse che non si vedono solamente a livello di facciata, ma anche al livello del manto stradale. E quindi avremo sicuramente i marciapiedi di un certo tipo, magari di qualità anche decorativa, e altri invece magari più comuni e riconducibili a famiglie meno abbienti.

Marco Giglio Assolutamente sì. Tra l’altro abbiamo segni netti della fine di una proprietà perché vengono ogni tanto messi dei cantonali, dei marca-spazio, degli elementi che delimitano lo spazio di una proprietà rispetto all’altra, anche all’esterno delle case. Per esempio, il tratto di marciapiede davanti alla Casa del Fauno è diverso rispetto quello degli edifici vicini, non fosse altro per l’iscrizione di benvenuto davanti all’ingresso della casa, che quindi è un segno che il proprietario può intervenire in uno spazio pubblico.

Anfore riutilizzate come sistema di scolo, circa 62 d.C., Pompei, Regio IX, insula 6, Parco Archeologico di Pompei. Courtesy Marco Giglio

Formafantasma Credo che nell’arco di questa conversazione tu abbia dato esempi molto interessanti di riutilizzo degli scarti o dei detriti, sia per la costruzione delle fondamenta, come nel caso delle anfore riutilizzate come grondaie, oppure dell’utilizzo dei cocci in terracotta per la costruzione degli impianti di muratura. Hai da citare altri esempi che trovi pertinenti o particolarmente eclatanti di riutilizzo di materiali? Penso per esempio a materiali scultorei come il marmo, che si trasformano da un oggetto decorativo e scultoreo a un oggetto strutturale per l’architettura.

Marco Giglio Abbiamo in molti casi elementi di calcare bianco riutilizzati all’interno delle murature come porzioni di materiale e in quei casi si tratta sicuramente di materiale che aveva un’altra funzione. Può essere un banale tavolo in marmo che va in frantumi e per il quale si presentano due strade: o lo si trasforma in calce o si riutilizza tout court il frammento all’interno della muratura. Ci sono vari esempi del genere. Più che il riutilizzo, è interessante anche la scelta tecnica del materiale che veniva fatta nella ricostruzione. Come dicevo, abbiamo diversi litotipi utilizzati a Pompei: uno di questi è la cruma di lava, che è sostanzialmente una lava superficiale poco addensata, dotata di molti vacuoli all’interno, di colore rosso, resistente e molto leggera. Molto spesso i piani superiori degli edifici sono totalmente costruiti in cruma di lava, perché si era compreso che conveniva mettere il materiale più pesante in basso e il più leggero in alto. Non vorrei che passasse l’idea di un riutilizzo totale del materiale anche con un certo caos. Si tratta, all’opposto, di cantieri molto ben strutturati e organizzati, dove vanno ottimizzate al massimo le risorse.

Formafantasma Sì, questo è chiaro. Se una persona è stata Pompei, è evidente che nelle architetture non c’è nulla di caotico, ma anzi è tutto piuttosto ben organizzato, a livello urbanistico ma anche strutturale. Quello che mi colpisce come progettista, anche se non mi occupo di architettura, è il modo in cui i materiali si modificano nelle loro funzioni e il fatto che i sistemi costruttivi permettano questa continua trasformazione dei materiali. Se penso all’architettura contemporanea, è una cosa impensabile costruire in questo modo.

Marco Giglio Nell’architettura contemporanea assolutamente no. In teoria un tramezzo lo puoi fare riutilizzando dei materiali, anche diversi. Però attualmente è molto più semplice ed economico fare un qualcosa in cemento armato, un materiale fluido…

Formafantasma O con un materiale prefabbricato, che però non permette il riutilizzo. In entrambi i casi, nelle tipologie di costruzione architettonica, la realtà che osserviamo a Pompei non era basata su una forma di idealismo legato al riutilizzo, ma era una forma di economia progettuale, economia reale della progettazione. Lo stesso si fa nella contemporaneità, cioè è meno dispendioso fare una gettata di cemento o utilizzare prefabbricati per la costruzione.

Marco Giglio Meno dispendioso nell’immediato, ma non nello smaltimento.

Formafantasma Esatto, è proprio questo il punto cui volevo arrivare. In un’economia del progetto totale, in qualche modo la progettazione dello spazio urbano architettonico pompeiano secondo noi potrebbe essere una sorta di modello per la costruzione dell’architettura contemporanea. Penso alle esigenze contemporanee di trovare sistemi di costruzione innanzitutto più localizzati, senza il bisogno di portare i materiali da luoghi altri, e soprattutto che rendano il ciclo della produzione architettonica più inclusivo della fine della vita di questa architettura e della sua rigenerazione, cosa che mi sembra evidente nello spazio progettuale della città di Pompei a confronto con il modo in cui si costruisce nella contemporaneità.

Immagini d’archivio per la ricerca alla base di Ore Streams

HKS Metals, 2017

Ore Streams

visual essay, 2019