Pompeii Commitment
Carlo Alfano. Passeggiata archeologica con Flavia Alfano e Andrea Viliani
Commitments 23 02•07•2021Frammenti di un autoritratto archeologico: passeggiando con Carlo Alfano
Flavia Alfano, Andrea Viliani
AV: Cara Flavia, ti propongo di fare una passeggiata con me oggi, insieme a tuo padre… “Buongiorno Flavia. Buongiorno Signor Alfano”. Io, però, non ho mai conosciuto Carlo Alfano. Gli piaceva passeggiare? Di sicuro gli piaceva ascoltare, leggere, osservare…
FA: Caro Andrea, passeggiare, pensare… sono attività molto simili, entrambe dispiegano il loro valore specifico nel tempo e nello spazio, ci aiutano lentamente a costruire ciò che intendiamo essere, consentendoci di attraversare, scrutandola, una dimensione coinvolgente che ci porta a diventare, passo dopo passo, diversi e più consapevoli del nostro agire. Anche questa nostra chiacchierata in itinere, che ricalca i passi di Carlo Alfano, forse aiuta me e te ad ascoltarci e a delineare il piccolo perimetro di un silenzioso quanto possibile sfondo esistenziale e culturale. Osservando le immagini di mio padre, pellegrino negli scenari archeologici a lui più familiari – Pompei, Paestum, Pozzuoli, Ercolano – ritrovo l’essenza più intima e vera di un uomo, che ricordo immerso nella vitale osservazione dei riflessi classici, alla ricerca di un senso di appartenenza non contingente. Ripenso spesso a una sua frase del 1978: “la pittura ricalcando le proprie tracce, riusando i suoi vecchi scenari della rappresentazione, dissolve le unità delle sue precedenti categorie e dei suoi ‘universali’. Essa, come l’evento, rappresentando si dissolve.”
AV: La ricerca di Carlo Alfano mi sembra condensare citazioni e presentimenti, come se stesse lavorando al progetto di un’ipotetica macchina del tempo o a una sua personale versione del Teatro della Memoria 1. Ho sempre pensato a lui, in effetti, come a un artista-filosofo intento a lavorare, più che a opere d’arte, a strumenti di conoscenza… come a un “prisma” newtoniano, che trasforma qualcosa di semplice quale un raggio di luce in qualcosa di complesso, o a una “piega” leibniziana e deleuziana, che definisce una vertigine in cui la coscienza si flette incessantemente nelle forme in cui essa si manifesta, o a una “soglia husserliana e heideggeriana”, che vive nel contatto fenomenologico fra identità e alterità. Del resto, per dichiarazione di Alfano stesso, il pensiero dell’“archeologo dei saperi” per antonomasia, Michel Foucault, è stato per lui un riferimento fondante nell’articolarsi del suo pensiero sull’arte. Che rapporto aveva Alfano con il sapere e, in particolare, con una disciplina quale quella dell’archeologia?
1 Con questo nome (e con quello analogo di Teatro della Sapienza) è conosciuto il progetto utopistico del filosofo umanista Giulio Camillo (1480-1544), una costruzione lignea di impianto vitruviano in cui archiviare, attraverso una serie di associazioni mnemoniche, tutti i saperi umani.
FA: Penso, che la singolarità della Memoria attenga a una individuale “Stanza” che accoglie le nostre forme cognitive ed emotive; all’interno di questo luogo interiore, gli aspetti della Storia subiscono deformazioni, empiriche dilatazioni e finanche amplificazioni sproporzionate, ma forse, grazie a questi travisamenti, il lungo passato fluisce ancora, parallelo accanto al nostro tempo, non osteggiando gli attraversamenti e permettendo all’arte di creare narrazioni basate su fulgidi quanto intermittenti frammenti.
A occhi chiusi palpiamo “rovine” come inevitabili racconti interrotti; il desiderio ci fa cogliere le tracce, i lati del prisma, e sembra, apparentemente, di poter raccogliere l’organicità tra le cose e le parole smarrite. Il racconto, o “sapere”, di Carlo Alfano comincia da quel punto, la sua opera parla dietro quella discontinuità densa, in quegli interstizi tra i ruderi di una classicità prolungata.
Lì, dove il passo tra identità e alterità è breve, il tempo si affaccia come intervallo non quantificabile cronologicamente, uno spazio-tempo che ha l’aspetto di una grande zona nera di profondo, denso e insondabile silenzio.
Svanito il mondo antico, sbiadite le sue rappresentazioni, restano davanti agli occhi, come sostanze metamorfiche, a Pompei come ad Angkor Wat, i segni, gli indizi, per manifestare un’altra facies, innescare nuovi scenari. È Carlo Alfano a indicarlo: “È una strada già percorsa, la ripercorriamo e, qualche volta, alla sicurezza di porre il piede su vecchie orme, si aggiunge la felicità che un particolare rapporto tra il caso e il pensiero ci porti sul luogo di un evento.”
Penso che l’attività dell’archeologo, meticolosa e scrupolosa, si opponga strenuamente allo smarrimento e alla smemoratezza umana… per questa veemente perseveranza, effettivamente, intravedo un’affinità con il metodo di Alfano, incrollabilmente fedele alla lettura analitica.
Tuttavia, credo vi sia un aspetto sostanziale che marca un confine invalicabile tra arte e archeologia e fa luce su quel distacco o discontinuità: l’archeologia ha come obiettivo disciplinare il tendere verso una ricostruzione, una ricomposizione di un sistema, e tale ricerca è un atto di fede connesso alla coscienza storica… l’arte è altro…
AV: Potremmo definire le documentazioni fotografiche delle sue visite a Ercolano, Paestum, Pompei e Pozzuoli delle azioni performative? Che definizione daresti di queste ‘passeggiate archeologiche’? E chi erano i suoi compagni, in quelle passeggiate?
FA: Assolutamente sì, ma in un contesto ancora verginale del termine. Un’azione performativa che non nasceva tanto da un proposito pianificato e con esiti divulgativi, quanto piuttosto dalla semplice necessità di trovare un proprio “baricentro” esistenziale e, quindi, conoscitivo; legittimarsi, riconoscere (con pudore) la propria posizione in una geografia non assoluta ma relativa.
Mi piace pensare a mementi esistenziali, trasversali, esperiti nel cono d’ombra della classicità, un bisogno umano interiore piuttosto che attestazione a futura gloria, atto necessario vissuto ogni volta con la felicità di una rinnovata scoperta, l’epifania riservata, di un’Arcadia vissuta a volte con la complicità di amici intimi.
Avanzi di quelle passeggiate si ritrovano nella dimensione di piccoli fotogrammi, nel ciclo delle Geografie degli anni Settanta; quegli eventi discreti sono piccoli spazi-tempi, microscopiche coordinate sospese all’interno del grande spazio-tempo archeologico.
AV: Carlo Alfano sembra adottare anche in queste passeggiate, come nelle altre sue opere, una concezione circolare e ciclica del tempo di matrice greco-romana (e persiana, indiano-buddista, maya e azteca…), più che quella lineare e teleologica di matrice biblico-coranica. I Greci distinguevano inoltre tra un tempo misurabile (χρονος) e un tempo caratterizzato dai suoi accadimenti (καιρος): nel tempo cairologico si fa un’esperienza del tempo (se ne ha una dimensione qualitativa e singolare), mentre quello cronologico corrisponde a una sequenza del tempo (dimensione quantitativa e omologante). Il primo caso comporta l’adozione di criteri non di semplice misurazione ma di riflessione, valutazione, argomentazione, interpretazione e comprensione. Un tempo quindi che riflette su sé stesso, che riporta alla “sincronicità” di Carl Gustav Jung, alla “durata reale” della coscienza di Henri Bergson, alla relatività einsteiniana e persino alle teorie della fisica quantistica – bolle, stringhe, concezioni del multiverso e del Big Bounce che esplorano un universo oscillante, pulsante e infinitamente molteplice. E credo che sia proprio questo il tempo espresso anche da un sito come Pompei: un tempo “prospettico”, come avrebbe detto tuo padre. Che rapporto aveva Alfano con il tempo? Mi racconteresti anche la genesi, in questo senso, dell’opera-fontana Tempi prospettici (1970-1972) che tuo padre realizzò per il sito di Paestum?
FA: Nel ciclo figurativo dei Frammenti anonimi il tempo viene declinato attraverso brevi accadimenti ma anche tra gli spazi vuoti delle pause e dei silenzi. Questo, è un tema centrale nella poetica di Carlo Alfano e fu mirabilmente messo in scena nel 1969 con il lavoro Stanza per voci, Archivio delle nominazioni, 1969,’70,’71,’72,’73,’74… In questa opera un nastro sonoro di pochi secondi, contenente un breve ritratto-autoritratto registrato precedentemente, e quindi in un altro tempo, attraversa con moto circolare la cornice vuota di un quadro, offrendo agli osservatori l’esperienza concreta e sensibile dell’incessante stratificarsi del tempo sul nostro presente. Il tempo-spazio nell’accezione circolare e imperitura è dominante anche nell’opera Delle distanze dalla rappresentazione, 1968, ora in collezione al MADRE di Napoli dove, in un ambiente in penombra, assistiamo allo stillicidio di una goccia che in una vasca delinea, ininterrottamente, cerchi concentrici persuasivi e ipnotici, come solo le cose ideali e inesauribili possono esprimere. Ogni rapporto dell’arte con la classicità contiene in sé verità e falsità, e questo perché i dati sono emendati dal tempo umano che nutre con memorie personali, leviga e ottunde asperità e avvallamenti ma soprattutto distilla.
Nel 1970 il grande archeologo Mario Napoli volle creare una nuova ala nel Museo di Paestum, progettata dall’architetto Giovanni De Franciscis e dedicata alla Tomba del Tuffatore: lì immaginò, con Carlo Alfano, un ponte ideale proprio tra lo sguardo archeologico e l’osservazione artistica contemporanea chiamata a dialogare con un tema classico, quale quello del passaggio da una dimensione a un’altra, dal forte impatto simbolico. L’enigma umano della distanza tra vita e morte, ma anche tra differenti piani spazio-temporali, si concretizzò in un’installazione nella quale i segni di una classicità aniconica appaiono come pensieri ab origine di colonne e forme euclidee.
Tempi prospettici è un omaggio di Alfano al concetto stesso di Classico, in quanto rappresentazione mentale, appunto ideale e inesauribile, depurata da ogni riferimento narrativo, anonima, configurata per dialogare e modificarsi solo grazie alla realtà eterna del luogo attraverso il riflesso della luce e il movimento del vento sull’acqua… semplicemente…
AV: Ripenso ora anche alla squadratura che solca diagonalmente la superficie blu cobalto di un suo dipinto che rievoca il moto del Tuffatore di Paestum… della pittura greca non ci è giunto praticamente nulla, e proprio il Tuffatore ne è uno dei pochissimi resti. E ripenso anche alla serie dei Frammenti di un autoritratto anonimo (1969-1975)… Degli artisti antichi non conosciamo spesso più neanche i nomi, per quel “naufragio” di conoscenze, e non solo di opere, di cui ci racconta l’archeologo Salvatore Settis. Che cosa significava per Carlo Alfano lavorare su queste mancanze? E perché ha usato le parole “frammento” e “anonimo” – lemmi basici del vocabolario archeologico – associandole all’idea più analitica e oggettiva dell’“autoritratto”?
FA: Nell’esperienza vivente del tempo presente convivono, in forma di Memoria, ricordo e oblio, come il negativo e il positivo in una fotografia sono destinati a condividere nello stesso luogo lo statuto di un’identità spezzata. Così, la distruzione e le reliquie del passato si equilibrano grazie ai nuovi segni, o forse dovrei dire segnali, del possibile. La nascita è possibile quando i seducenti feticci del passato sono cancellati o esistono in quanto frammenti, ovvero, quando il vascello è alla deriva e siamo, in un certo qual modo, svincolati e liberi di convertire in altro quei relitti. La “finestra” albertiana designava teoricamente, in occidente, una costruzione simbolica della conoscenza, una condizione espressiva frutto della necessità razionale di organizzare un’intenzionale visione armonica; la prospettiva rinascimentale ha creato le condizioni di una rappresentazione chiusa del campo di osservazione in una forma improbabile quanto possibile di verità. A questa visione di ipotetica verità classica corrisponde in Carlo Alfano quel piccolo ‘scarto’ intenzionale dell’arte, l’espressione di un inciampo deliberato del nostro vivere che, avversando o ricusando le origini, impone la ricombinazione di assenze, di silenzi e dei tanti hic et nunc anonimi che costellano la storia dell’arte in infinite successioni combinatorie. Parafrasando Foucault, forse per Alfano l’essere dell’Arte appare grazie alla scomparsa dei suoi presupposti.
AV: Se l’identità si rivela nella sua scomparsa, o rispecchiamento, moltiplicazione, espansione e proliferazione, non ci resta che rinnegare anche noi due il principio di identità e le regole aristoteliche della messa in scena che predeterminano l’unità e riconoscibilità anche di tempo, spazio e azione, e quindi dell’attore, o degli attori, sulla scena (appunto… Frammenti di un autoritratto anonimo). Mi verrebbe da chiederti perché tuo padre era invece così interessato alla metafora del teatro per descrivere il suo lavoro, che lui stesso definiva “spazio teatrale dell’animo”. E del resto non mancano i teatri, anzi sono i protagonisti, fra le antiche rovine che visitava…
FA: Dietro ogni forma di teatro si cela la doblure della rappresentazione, il teatro inscena la presenza simbolica della frattura, della contraddizione che impone l’accettazione del fuori di sé e l’assenza lacerante di un confine preciso della propria identità. Il teatro per Alfano rappresenta la soglia della soggettività spezzata; forse la paura di perdere l’altro di sé senza sapere chi sia l’altro da sé (?). Le sue parole, in tal senso, sono ancora illuminanti: “Le scene, come in uno specchio lontano che cancella i lineamenti e i particolari, ci mostrano figure e gesti nei quali potremmo riconoscerci. Anche se opaco, in questo ‘specchio teatrale’ scorgiamo a volte il nostro profilo […] Un dubbio ci può cogliere. Che dietro questo spazio di fronte ce ne sia un altro: un altro palcoscenico dove si muove il rovescio di ciò che guardiamo. Dietro lo specchio c’è l’altro profilo? Quello della psiche? Questo ambiguo rapporto riduce la nostra condizione di estraneità immettendoci nelle ragioni interne dell’opera.”
AV: Il teatro alfaniano sarebbe quindi la disciplina di un artista-ricercatore, che ricerca – opera per opera, con una progressione che mette ogni opera in discussione – gli statuti e la consistenza dell’opera stessa? Come se l’opera non fosse tanto importante quanto gli interrogativi che essa pone. Come se essa fosse il vuoto intorno a cui si realizza anche il calco pompeiano, espressione di una “vitalità del negativo”, per citare il titolo di una mostra a cui Alfano partecipò nel 1970. Come si rapportava all’impermanenza e variazione delle sue opere? Che relazione intratteneva con il concetto di sparizione e, per traslato, con l’idea di distruzione così intimamente connesse all’episteme archeologica?
FA: Il suo era un possibile modo per sostenere la leggerezza di parole e immagini un tempo ponderose e assolute; rielaborare luoghi e memoria per poi cogliere nel concetto di Distanza un valore fondativo. ‘Scavare’: intorno agli eventi o alla memoria, in quella sua personale geografia del desiderio, gli consentiva di svelare, a se stesso, una trama di impalpabili ombre. Il calco è, forse, il rovescio più evocativo di allusioni e nello stesso tempo il più emozionante, è la forma di assenza che meglio corrisponde alla sua idea di “vitalità del negativo”, e di ambiguità.
AV: Chi sarebbero stati per tuo padre, secondo te, i compagni ideali anche di questa passeggiata?
FA: Sicuramente te, me e la distanza.
AV: È stata allora una bellissima passeggiata, ed era molto tempo che desideravo farla con voi… “Grazie Flavia. Grazie Signor Alfano”.
FA: Grazie a voi due… io continuo la mia passeggiata…
Tempi prospettici, Paestum, 1970-72
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
veduta dell’allestimento
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
© Archivio dell’Arte / Rocco e Luciano Pedicini