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© Pompeii Commitment. Archaeological Matters, un progetto del Parco Archeologico di Pompei, 2020. Project partner: MiC.
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Carlo Alfano. Passeggiata archeologica con Flavia Alfano e Andrea Viliani

Commitments 23    02•07•2021

Carlo Alfano

1. Dettaglio:

Viaggio a Pozzuoli, Anfiteatro Flavio, 1970
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
Photo Fabio Donato

2. Immagine nel testo:

Carlo Alfano e Mario Napoli a Paestum
Courtesy ARCHIVIO ALFANO

3. Immagine:

Viaggio a Pompei, via dell’Abbondanza, 1970
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
Photo Fabio Donato

4. Immagine:

Viaggio a Pompei, Terme Stabiane, 1970
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
Photo Fabio Donato

5. Immagini:

Viaggio a Pompei, Quadriportico dei Teatri, 1970
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
Photo Fabio Donato

6. Immagine:

Geographie, 1973
foto e grafite su carta geografica
Collezione Privata, Napoli
Courtesy ARCHIVIO ALFANO

7. Immagine:

Viaggio a Pompei, Teatri, 1970
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
Photo Fabio Donato

8. Immagini:

Viaggio a Pompei, Teatro Grande, 1970
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
Photo Fabio Donato

9,10. Immagini:

Viaggio a Pozzuoli, Anfiteatro Flavio, 1970
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
Photo Fabio Donato

11.

Tempi prospettici, 1970-72
acqua, acciaio e plexiglass su matrice di marmo, tipo (ritmico), tre selettori acciaio, tre selettori plexiglass
640 x 640 cm
Courtesy Archivio Alfano

12. Immagine:

Viaggio a Pozzuoli, Serapeo, 1970
Courtesy Archivio Jodice
Photo Mimmo Jodice

Per la sua concezione del tempo circolare, piegato, intrecciato su se stesso, per la sua esperienza dell’opera – dalla consistenza plurale e variabile, al contempo individuale e molteplice, rintracciabile e dispersa – e per la natura essenzialmente auto-critica della sua ricerca artistica, Carlo Alfano è fra i più misteriosi autori dell’arte concettuale della seconda metà del XX secolo e incarna la figura di un ideale compagno di viaggio con cui affrontare alcuni dei quesiti che la narrazione della materia archeologica pompeiana propone.
La “preistoria” della sua pratica intellettuale è caratterizzata da un lavoro solitario che sonda la relazione fra materia e colore. Al di là della suddivisione fra espressionismo di matrice informale degli anni Cinquanta e strutturazione di ascendenza ottico-cinetica degli anni Sessanta, Alfano individua ben presto nella relazione fra riflessione logica e percezione visiva il fulcro della sua ricerca, che egli configura come un’interrogazione ininterrotta sul significato stesso della rappresentazione: sincronica messa in scena dell’intelligenza, della memoria e del racconto in cui immagine e parola (lettera o suono), spazio e tempo, identità e alterità creano slittamenti continui fra i diversi livelli di un ecosistema di conoscenze aperto e interconnesso. Alfano intende l’opera come esperimento auto-riflessivo, agito nello stesso “spazio-tempo” da cui l’opera emerge e in cui essa consiste, e declina la sua ricerca come un archivio dalla cui disponibilità ed elasticità l’opera si genera in un gioco di rispecchiamenti, di rinominazioni, di generazioni di ulteriori frammenti. Se egli evoca gli archetipi mitologici di Eco e Narciso (incarnati anche dal Tuffatore di Paestum a cui il contributo sull’artista pubblicato su questo portale fa riferimento), o la dinamica caravaggesca fra luce e buio, o la molteplicità dei possibili co-autori della sua speculazione antropologica, fenomenologica, filosofica e letteraria (da William Shakespeare a Miguel de Cervantes, da Marcel Proust a James Joyce, e su tutti il filosofo dell’archeologia del sapere, Michel Foucault), Alfano non li cita ma li riporta alla superficie della coscienza, li interroga e li esplora, prima di perderne le tracce, lasciarli andare, farli risparire là da dove erano emersi. L’archivio e la nominazione da un lato, il frammento e l’anonimia dall’altro: ovvero il ritratto e l’autoritratto, la rappresentazione e la distanza da essa, divengono gli strumenti di un teatro filosofico delle ombre, di cui l’artista è l’invisibile burattinaio. Privilegiando il vuoto (le stesure blu, grigie e nere di colore denso, saturo e uniforme dei suoi dipinti) egli può conferire alle sue creature estemporanee la profondità mentale del pieno e far affiorare – come su una soglia fra diverse dimensioni spazio-temporali e conoscitive – il mistero della figura, della voce, delle idee umane: figure, voci, idee insondabili, che sembrano ancora sconosciute, o in formazione, o in via di estinzione, o già estinte, affidate alla partitura dettata dalla scansione fra suoni e pause (nella biblioteca ideale di Stanza per voci, Archivio delle nominazioni 1969, ’70, ’71,’72, ’73, ’74…, 1968-69), o ai lacerti di un discorso (la singolarità del vocabolo che ritrova la densità della frase ripetendosi sulla superficie pittorica dei Frammenti di un autoritratto anonimo, serie avviata nel 1969 e continuata dall’artista fino alla sua morte), o ai tratti di un profilo (le tele tagliate che sembrano ricomporre le loro fratture attraverso fitte trame di fili). Questi (auto)ritratti sono costruiti rappresentando lo scorrere del tempo che l’artista vive in prima persona, riportando le frasi che ascolta, o che legge, e i pensieri che formula.
In assenza quindi della sua voce, e impossibilitati a condividere con lui lo stesso spazio-tempo, il contributo di Carlo Alfano a Pompeii Commitment è affidato all’Archivio Alfano, e a sua figlia Flavia, ma assumendo come guida alcune delle parole dell’artista che tracciano proprio il modo di dipingere un suo autoritratto. Le parole che seguono ci indicano forse come tracciare, di quell’autoritratto, una nuova possibile incarnazione, con cui intrattenersi a parlare di opere archeologiche (frammentarie) e dei loro (anonimi) autori?
“[…] Adopero un modo convenzionale di scrivere il tempo mediante una linea numerica progressiva orizzontale, secondo una linearità che va da 1 a 2. Queste serie lineari sono interrotte, secondo la struttura generale del senso che voglio dare al quadro, da brevi frasi, da vuoti e da silenzi. Il senso di ogni frammento – come del grande frammento che è il quadro – non è quello di comunicare una serie di concetti compiuti o di una linearità del tempo; mi interessa cogliere del tempo le sue circolarità, i suoi arresti, le sue velocità. Tra le unità dei secondi (il segno che ho scelto per indicare il tempo) mi interessa il lento affacciarsi della parola, le tensioni delle sue regole, i conflitti e le esclusioni dei suoi movimenti soggettivi, prima che la parola raggiunga quella pienezza che riempirà il silenzio”. AV

Immagine in home page: Carlo Alfano, Viaggio a Pozzuoli, Anfiteatro Flavio, 1970. Courtesy ARCHIVIO ALFANO. Photo Fabio Donato

La prima mostra personale di Carlo Alfano (Napoli, 1932-1990) avviene nel 1955 alla Galleria San Carlo di Napoli. Un decennio dopo, nel 1966 e sempre a Napoli, alla Modern Art Agency, l’artista presenta le opere delle serie Tipo e strutture ritmiche e Tempi prospettici, che svilupperà in seguito nell’opera site-specific Tempi prospettici (1970-1972) commissionatagli dal Museo Archeologico Nazionale di Paestum per integrare la prima presentazione museale degli affreschi della Tomba del Tuffatore, da poco riscoperti. Reinterpretando in modo personale le estetiche concettuali e quelle programmate e cinetiche del decennio, ma anche i canoni classici e rinascimentali che presiedono alla convenzione prospettica e ai meccanismi di controllo della rappresentazione, Alfano realizza congiuntamente installazioni ambientali che coinvolgono lo spettatore in esperienze critiche sullo spazio e sul tempo (la serie Distanze – delle distanze dalla rappresentazione, 1968-1969). Nel 1970 partecipa a mostre collettive che articolano una sintesi del decennio appena trascorso, quali Amore mio e Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70. Nel 1972 presenta alla Galleria dell’Ariete di Milano e alla Galerie Folker Skulima di Berlino Stanza per voci, Archivio delle nominazioni 1969,’70, ’71,’72,’73,’74… (1968-1969): della forma e della struttura del quadro Alfano conserva solo lo spazio perimetrale, una cornice in alluminio cava in cui scorrono registrazioni su nastri magnetici. Se in quest’opera la rappresentazione è dissolta nella parola, che si diffonde come un astratto memoriale nella stanza, dal 1969 l’artista aveva già rielaborato un proprio alfabeto pittorico, affidandolo a tele monocrome nere o bianche solcate da sequenze numeriche lineari di secondi intervallati da silenzi, frasi e riflessioni occasionali: i Frammenti di un autoritratto anonimo sono presentati nel 1974 alla Galerie Art in Progress di Monaco, a cui seguono le presentazioni alla Kunsthalle di Berna e alla Galerie Sonnabend di Parigi. Allo stato di sospensione, piuttosto che alla letteralità figurale delle opere caravaggesche (fonte principale di ispirazione di tutto il Barocco napoletano) si riportano invece, dalla metà degli anni Settanta, le serie pittoriche Eco-Narciso (esposta nel 1978 al Museo Principe Diego Aragona Pignatelli Cortés di Napoli e nel 1979 al Museum Schloß Morsbroich di Leverkusen) ed Eco-Discesa (una versione della quale entra a far parte nel 1984 della collezione Terrae Motus) o le opere ispirate alla Vocazione di San Matteo del 1599-1610. Durata, intensità, risonanza, profondità, opacità, sonorità, silenzio, memoria, destino e oscurità sono i concetti intorno a cui è concepita Camera n.1, presentata nel 1987 al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli e che rappresenta l’apice della ricerca dell’artista prima della sua scomparsa. La più estesa mostra personale con relativo catalogo monografico retrospettivo dedicati all’artista sono stati organizzati e pubblicati nel 2017 dal MART-Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto.

Pompeii Commitment

Carlo Alfano. Passeggiata archeologica con Flavia Alfano e Andrea Viliani

Commitments 23 02•07•2021

Frammenti di un autoritratto archeologico: passeggiando con Carlo Alfano

Flavia Alfano, Andrea Viliani

AV: Cara Flavia, ti propongo di fare una passeggiata con me oggi, insieme a tuo padre… “Buongiorno Flavia. Buongiorno Signor Alfano”. Io, però, non ho mai conosciuto Carlo Alfano. Gli piaceva passeggiare? Di sicuro gli piaceva ascoltare, leggere, osservare…

FA: Caro Andrea, passeggiare, pensare… sono attività molto simili, entrambe dispiegano il loro valore specifico nel tempo e nello spazio, ci aiutano lentamente a costruire ciò che intendiamo essere, consentendoci di attraversare, scrutandola, una dimensione coinvolgente che ci porta a diventare, passo dopo passo, diversi e più consapevoli del nostro agire. Anche questa nostra chiacchierata in itinere, che ricalca i passi di Carlo Alfano, forse aiuta me e te ad ascoltarci e a delineare il piccolo perimetro di un silenzioso quanto possibile sfondo esistenziale e culturale. Osservando le immagini di mio padre, pellegrino negli scenari archeologici a lui più familiari – Pompei, Paestum, Pozzuoli, Ercolano – ritrovo l’essenza più intima e vera di un uomo, che ricordo immerso nella vitale osservazione dei riflessi classici, alla ricerca di un senso di appartenenza non contingente. Ripenso spesso a una sua frase del 1978: “la pittura ricalcando le proprie tracce, riusando i suoi vecchi scenari della rappresentazione, dissolve le unità delle sue precedenti categorie e dei suoi ‘universali’. Essa, come l’evento, rappresentando si dissolve.”

AV: La ricerca di Carlo Alfano mi sembra condensare citazioni e presentimenti, come se stesse lavorando al progetto di un’ipotetica macchina del tempo o a una sua personale versione del Teatro della Memoria 1. Ho sempre pensato a lui, in effetti, come a un artista-filosofo intento a lavorare, più che a opere d’arte, a strumenti di conoscenza… come a un “prisma” newtoniano, che trasforma qualcosa di semplice quale un raggio di luce in qualcosa di complesso, o a una “piega” leibniziana e deleuziana, che definisce una vertigine in cui la coscienza si flette incessantemente nelle forme in cui essa si manifesta, o a una “soglia husserliana e heideggeriana”, che vive nel contatto fenomenologico fra identità e alterità. Del resto, per dichiarazione di Alfano stesso, il pensiero dell’“archeologo dei saperi” per antonomasia, Michel Foucault, è stato per lui un riferimento fondante nell’articolarsi del suo pensiero sull’arte. Che rapporto aveva Alfano con il sapere e, in particolare, con una disciplina quale quella dell’archeologia?


1 Con questo nome (e con quello analogo di Teatro della Sapienza) è conosciuto il progetto utopistico del filosofo umanista Giulio Camillo (1480-1544), una costruzione lignea di impianto vitruviano in cui archiviare, attraverso una serie di associazioni mnemoniche, tutti i saperi umani.

FA: Penso, che la singolarità della Memoria attenga a una individuale “Stanza” che accoglie le nostre forme cognitive ed emotive; all’interno di questo luogo interiore, gli aspetti della Storia subiscono deformazioni, empiriche dilatazioni e finanche amplificazioni sproporzionate, ma forse, grazie a questi travisamenti, il lungo passato fluisce ancora, parallelo accanto al nostro tempo, non osteggiando gli attraversamenti e permettendo all’arte di creare narrazioni basate su fulgidi quanto intermittenti frammenti.
A occhi chiusi palpiamo “rovine” come inevitabili racconti interrotti; il desiderio ci fa cogliere le tracce, i lati del prisma, e sembra, apparentemente, di poter raccogliere l’organicità tra le cose e le parole smarrite. Il racconto, o “sapere”, di Carlo Alfano comincia da quel punto, la sua opera parla dietro quella discontinuità densa, in quegli interstizi tra i ruderi di una classicità prolungata.
Lì, dove il passo tra identità e alterità è breve, il tempo si affaccia come intervallo non quantificabile cronologicamente, uno spazio-tempo che ha l’aspetto di una grande zona nera di profondo, denso e insondabile silenzio.
Svanito il mondo antico, sbiadite le sue rappresentazioni, restano davanti agli occhi, come sostanze metamorfiche, a Pompei come ad Angkor Wat, i segni, gli indizi, per manifestare un’altra facies, innescare nuovi scenari. È Carlo Alfano a indicarlo: “È una strada già percorsa, la ripercorriamo e, qualche volta, alla sicurezza di porre il piede su vecchie orme, si aggiunge la felicità che un particolare rapporto tra il caso e il pensiero ci porti sul luogo di un evento.”
Penso che l’attività dell’archeologo, meticolosa e scrupolosa, si opponga strenuamente allo smarrimento e alla smemoratezza umana… per questa veemente perseveranza, effettivamente, intravedo un’affinità con il metodo di Alfano, incrollabilmente fedele alla lettura analitica.
Tuttavia, credo vi sia un aspetto sostanziale che marca un confine invalicabile tra arte e archeologia e fa luce su quel distacco o discontinuità: l’archeologia ha come obiettivo disciplinare il tendere verso una ricostruzione, una ricomposizione di un sistema, e tale ricerca è un atto di fede connesso alla coscienza storica… l’arte è altro…

AV: Potremmo definire le documentazioni fotografiche delle sue visite a Ercolano, Paestum, Pompei e Pozzuoli delle azioni performative? Che definizione daresti di queste ‘passeggiate archeologiche’? E chi erano i suoi compagni, in quelle passeggiate?

FA: Assolutamente sì, ma in un contesto ancora verginale del termine. Un’azione performativa che non nasceva tanto da un proposito pianificato e con esiti divulgativi, quanto piuttosto dalla semplice necessità di trovare un proprio “baricentro” esistenziale e, quindi, conoscitivo; legittimarsi, riconoscere (con pudore) la propria posizione in una geografia non assoluta ma relativa.
Mi piace pensare a mementi esistenziali, trasversali, esperiti nel cono d’ombra della classicità, un bisogno umano interiore piuttosto che attestazione a futura gloria, atto necessario vissuto ogni volta con la felicità di una rinnovata scoperta, l’epifania riservata, di un’Arcadia vissuta a volte con la complicità di amici intimi.
Avanzi di quelle passeggiate si ritrovano nella dimensione di piccoli fotogrammi, nel ciclo delle Geografie degli anni Settanta; quegli eventi discreti sono piccoli spazi-tempi, microscopiche coordinate sospese all’interno del grande spazio-tempo archeologico.

AV: Carlo Alfano sembra adottare anche in queste passeggiate, come nelle altre sue opere, una concezione circolare e ciclica del tempo di matrice greco-romana (e persiana, indiano-buddista, maya e azteca…), più che quella lineare e teleologica di matrice biblico-coranica. I Greci distinguevano inoltre tra un tempo misurabile (χρονος) e un tempo caratterizzato dai suoi accadimenti (καιρος): nel tempo cairologico si fa un’esperienza del tempo (se ne ha una dimensione qualitativa e singolare), mentre quello cronologico corrisponde a una sequenza del tempo (dimensione quantitativa e omologante). Il primo caso comporta l’adozione di criteri non di semplice misurazione ma di riflessione, valutazione, argomentazione, interpretazione e comprensione. Un tempo quindi che riflette su sé stesso, che riporta alla “sincronicità” di Carl Gustav Jung, alla “durata reale” della coscienza di Henri Bergson, alla relatività einsteiniana e persino alle teorie della fisica quantistica – bolle, stringhe, concezioni del multiverso e del Big Bounce che esplorano un universo oscillante, pulsante e infinitamente molteplice. E credo che sia proprio questo il tempo espresso anche da un sito come Pompei: un tempo “prospettico”, come avrebbe detto tuo padre. Che rapporto aveva Alfano con il tempo? Mi racconteresti anche la genesi, in questo senso, dell’opera-fontana Tempi prospettici (1970-1972) che tuo padre realizzò per il sito di Paestum?

FA: Nel ciclo figurativo dei Frammenti anonimi il tempo viene declinato attraverso brevi accadimenti ma anche tra gli spazi vuoti delle pause e dei silenzi. Questo, è un tema centrale nella poetica di Carlo Alfano e fu mirabilmente messo in scena nel 1969 con il lavoro Stanza per voci, Archivio delle nominazioni, 1969,’70,’71,’72,’73,’74… In questa opera un nastro sonoro di pochi secondi, contenente un breve ritratto-autoritratto registrato precedentemente, e quindi in un altro tempo, attraversa con moto circolare la cornice vuota di un quadro, offrendo agli osservatori l’esperienza concreta e sensibile dell’incessante stratificarsi del tempo sul nostro presente. Il tempo-spazio nell’accezione circolare e imperitura è dominante anche nell’opera Delle distanze dalla rappresentazione, 1968, ora in collezione al MADRE di Napoli dove, in un ambiente in penombra, assistiamo allo stillicidio di una goccia che in una vasca delinea, ininterrottamente, cerchi concentrici persuasivi e ipnotici, come solo le cose ideali e inesauribili possono esprimere. Ogni rapporto dell’arte con la classicità contiene in sé verità e falsità, e questo perché i dati sono emendati dal tempo umano che nutre con memorie personali, leviga e ottunde asperità e avvallamenti ma soprattutto distilla.

Nel 1970 il grande archeologo Mario Napoli volle creare una nuova ala nel Museo di Paestum, progettata dall’architetto Giovanni De Franciscis e dedicata alla Tomba del Tuffatore: lì immaginò, con Carlo Alfano, un ponte ideale proprio tra lo sguardo archeologico e l’osservazione artistica contemporanea chiamata a dialogare con un tema classico, quale quello del passaggio da una dimensione a un’altra, dal forte impatto simbolico. L’enigma umano della distanza tra vita e morte, ma anche tra differenti piani spazio-temporali, si concretizzò in un’installazione nella quale i segni di una classicità aniconica appaiono come pensieri ab origine di colonne e forme euclidee.
Tempi prospettici è un omaggio di Alfano al concetto stesso di Classico, in quanto rappresentazione mentale, appunto ideale e inesauribile, depurata da ogni riferimento narrativo, anonima, configurata per dialogare e modificarsi solo grazie alla realtà eterna del luogo attraverso il riflesso della luce e il movimento del vento sull’acqua… semplicemente…

AV: Ripenso ora anche alla squadratura che solca diagonalmente la superficie blu cobalto di un suo dipinto che rievoca il moto del Tuffatore di Paestum… della pittura greca non ci è giunto praticamente nulla, e proprio il Tuffatore ne è uno dei pochissimi resti. E ripenso anche alla serie dei Frammenti di un autoritratto anonimo (1969-1975)… Degli artisti antichi non conosciamo spesso più neanche i nomi, per quel “naufragio” di conoscenze, e non solo di opere, di cui ci racconta l’archeologo Salvatore Settis. Che cosa significava per Carlo Alfano lavorare su queste mancanze? E perché ha usato le parole “frammento” e “anonimo” – lemmi basici del vocabolario archeologico – associandole all’idea più analitica e oggettiva dell’“autoritratto”?

FA: Nell’esperienza vivente del tempo presente convivono, in forma di Memoria, ricordo e oblio, come il negativo e il positivo in una fotografia sono destinati a condividere nello stesso luogo lo statuto di un’identità spezzata. Così, la distruzione e le reliquie del passato si equilibrano grazie ai nuovi segni, o forse dovrei dire segnali, del possibile. La nascita è possibile quando i seducenti feticci del passato sono cancellati o esistono in quanto frammenti, ovvero, quando il vascello è alla deriva e siamo, in un certo qual modo, svincolati e liberi di convertire in altro quei relitti. La “finestra” albertiana designava teoricamente, in occidente, una costruzione simbolica della conoscenza, una condizione espressiva frutto della necessità razionale di organizzare un’intenzionale visione armonica; la prospettiva rinascimentale ha creato le condizioni di una rappresentazione chiusa del campo di osservazione in una forma improbabile quanto possibile di verità. A questa visione di ipotetica verità classica corrisponde in Carlo Alfano quel piccolo ‘scarto’ intenzionale dell’arte, l’espressione di un inciampo deliberato del nostro vivere che, avversando o ricusando le origini, impone la ricombinazione di assenze, di silenzi e dei tanti hic et nunc anonimi che costellano la storia dell’arte in infinite successioni combinatorie. Parafrasando Foucault, forse per Alfano l’essere dell’Arte appare grazie alla scomparsa dei suoi presupposti.

AV: Se l’identità si rivela nella sua scomparsa, o rispecchiamento, moltiplicazione, espansione e proliferazione, non ci resta che rinnegare anche noi due il principio di identità e le regole aristoteliche della messa in scena che predeterminano l’unità e riconoscibilità anche di tempo, spazio e azione, e quindi dell’attore, o degli attori, sulla scena (appunto… Frammenti di un autoritratto anonimo). Mi verrebbe da chiederti perché tuo padre era invece così interessato alla metafora del teatro per descrivere il suo lavoro, che lui stesso definiva “spazio teatrale dell’animo”. E del resto non mancano i teatri, anzi sono i protagonisti, fra le antiche rovine che visitava…

FA: Dietro ogni forma di teatro si cela la doblure della rappresentazione, il teatro inscena la presenza simbolica della frattura, della contraddizione che impone l’accettazione del fuori di sé e l’assenza lacerante di un confine preciso della propria identità. Il teatro per Alfano rappresenta la soglia della soggettività spezzata; forse la paura di perdere l’altro di sé senza sapere chi sia l’altro da sé (?). Le sue parole, in tal senso, sono ancora illuminanti: “Le scene, come in uno specchio lontano che cancella i lineamenti e i particolari, ci mostrano figure e gesti nei quali potremmo riconoscerci. Anche se opaco, in questo ‘specchio teatrale’ scorgiamo a volte il nostro profilo […] Un dubbio ci può cogliere. Che dietro questo spazio di fronte ce ne sia un altro: un altro palcoscenico dove si muove il rovescio di ciò che guardiamo. Dietro lo specchio c’è l’altro profilo? Quello della psiche? Questo ambiguo rapporto riduce la nostra condizione di estraneità immettendoci nelle ragioni interne dell’opera.”

AV: Il teatro alfaniano sarebbe quindi la disciplina di un artista-ricercatore, che ricerca – opera per opera, con una progressione che mette ogni opera in discussione – gli statuti e la consistenza dell’opera stessa? Come se l’opera non fosse tanto importante quanto gli interrogativi che essa pone. Come se essa fosse il vuoto intorno a cui si realizza anche il calco pompeiano, espressione di una “vitalità del negativo”, per citare il titolo di una mostra a cui Alfano partecipò nel 1970. Come si rapportava all’impermanenza e variazione delle sue opere? Che relazione intratteneva con il concetto di sparizione e, per traslato, con l’idea di distruzione così intimamente connesse all’episteme archeologica?

FA: Il suo era un possibile modo per sostenere la leggerezza di parole e immagini un tempo ponderose e assolute; rielaborare luoghi e memoria per poi cogliere nel concetto di Distanza un valore fondativo. ‘Scavare’: intorno agli eventi o alla memoria, in quella sua personale geografia del desiderio, gli consentiva di svelare, a se stesso, una trama di impalpabili ombre. Il calco è, forse, il rovescio più evocativo di allusioni e nello stesso tempo il più emozionante, è la forma di assenza che meglio corrisponde alla sua idea di “vitalità del negativo”, e di ambiguità.

AV: Chi sarebbero stati per tuo padre, secondo te, i compagni ideali anche di questa passeggiata?

FA: Sicuramente te, me e la distanza.

AV: È stata allora una bellissima passeggiata, ed era molto tempo che desideravo farla con voi… “Grazie Flavia. Grazie Signor Alfano”.

FA: Grazie a voi due… io continuo la mia passeggiata…

Tempi prospettici, Paestum, 1970-72

Giovanni de Franciscis, Progetto per la nuova ala del Museo di Paestum, 1968-70
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
Tempi prospettici, 1970-72 veduta dell'allestimento Courtesy ARCHIVIO ALFANO © Archivio dell'Arte / Rocco e Luciano Pedicini
Tempi prospettici, 1970-72 dettaglio Courtesy ARCHIVIO ALFANO Photo Barbara Jodice

Tempi prospettici, 1970-72
veduta dell’allestimento
Courtesy ARCHIVIO ALFANO
© Archivio dell’Arte / Rocco e Luciano Pedicini
Installazione dell'opera Tempi prospettici a Paestum, 1972 Courtesy ARCHIVIO ALFANO
Installazione dell'opera Tempi prospettici a Paestum, 1972 Courtesy ARCHIVIO ALFANO