Pompeii Commitment
Andrea Branzi, con Andrea Viliani. Pompei come dripping e Merzbau
Commitments 32 14•10•2021Pompei come dripping e Merzbau: una conversazione inutile e illuminante con Andrea Branzi
Milano, Studio Branzi, 24 agosto 2021.
Sono presenti Andrea Branzi, Lorenza Branzi, Nicoletta Morozzi e Andrea Viliani.
Andrea Branzi: Inizia con una domanda facile, Andrea…
Andrea Viliani: Non è neanche una domanda, Andrea. L’ultima volta che ci siamo incontrati hai detto che mi avresti spiegato perché per te Pompei è un dripping…
AB: Sì, lo so, è una interpretazione diversa rispetto alle interpretazioni classiche di Pompei, di cui conosciamo tutta la letteratura un po’ funerea. Per me è interessante provare a interpretare la realtà di Pompei da un’altra posizione, che contempla la dimensione dell’attesa e della sorpresa. Pensa alla legge di Darwin per cui l’essere umano deriva dalla scimmia e per questo le somiglia. Ma, come tutte le leggi, anche questa può essere reversibile, applicata quindi anche all’inverso, per cui sarebbe la scimmia a diventare simile all’uomo o l’uomo tornare a essere simile a una scimmia. Un caso e un comportamento imprevisto ma possibile, e forse anzi probabile, come ti dimostra il Parkour delle scimmie metropolitane contemporanee. Incontrollabile ma realistico: un gesto fisico di anarchia mentale, un dripping.
AV: Pensi al dripping con cui Jackson Pollock faceva sgocciolare la pittura direttamente sulla tela, posta invece che in verticale sul muro in orizzontale sul pavimento?
AB: Per me Pompei è arte moderna, in effetti. L’ipotesi è questa…
AV: Qual’è quindi la tua ipotesi?
AB: È come se la materia che cadeva dal vulcano, e quindi dall’alto, avesse ricreato Pompei durante l’eruzione. Esiste questo duplice segnale di energia: da una parte a Pompei tutto cade a terra, crolla, ma, allo stesso tempo, per il Vesuvio quell’azione significa invece una crescita, un innalzamento, un segnale energetico di segno opposto. Se metti in relazione questo duplice segnale di energia, Pompei non è uno spazio o un tempo di distruzione, un cumulo di cadaveri e di macerie, ma una realtà espressiva, ovvero che si sta esprimendo, un segno creativo vitale. Frammentario proprio anche perché energetico. Ed è quindi un dripping.
AV: È come se l’eruzione avesse rigenerato i corpi e i manufatti pompeiani?
AB: In un certo senso. Ho qui sotto gli occhi una riproduzione di La zattera della Medusa di Théodore Géricault. Ricordi quest’opera?
AV: Sì, rappresenta il naufragio di una fregata francese, la Méduse, avvenuto credo nel 1816 al largo delle coste della Mauritania. Géricault la dipinse fra l’altro tra il 1818 e il 1819, pochi decenni dopo la riscoperta di Ercolano e Pompei…
AB: Anche in questo dipinto ci sono come due realtà. La disperazione, l’abbandono, la morte per alcuni… E poi improvvisamente un possibile segnale di speranza, di salvezza, di vita quando, proprio al lato opposto della zattera ormai immersa nel mare, alcuni naufraghi si sollevano e aprono le loro braccia appena scorgono all’orizzonte un’altra imbarcazione…
AV: Credo si chiamasse Argus… quelle imbarcazioni moderne avevano tutte nomi mitologici…
AB: …anche Pompei è una pittura moderna. Per farti un altro esempio, guarda queste immagini dello studio di Francis Bacon. La spazzatura di tutte queste cose che ricoprono lo studio non è caotica, anche se lo sembra, ma compone un segno, che è la testimonianza storica di qualcuno che vive a Londra sotto i bombardamenti. Se guardi quella spazzatura informe di colori, oggetti, strumenti, sembra il risultato dei gesti irregolari di un folle, ma non fa altro che riportare dentro lo studio ciò che a Bacon appariva fuori dalla finestra…
AV: …una città distrutta, ma ancora viva.
AB: Come quella di Bacon anche quella di Jackson Pollock non sembra più una pittura del tutto umana ma – quasi se appartenesse al rovescio della legge di Darwin, a una legge di Darwin inversa – sembra la pittura di un animale scatenato, furioso. Che però esprime la sua energia con la raffinatezza straordinaria, incredibile, del dripping.
AV: Quindi per te è come se a Pompei l’evoluzione darwiniana, invece di continuare a procedere in avanti, fosse iniziata a tornare indietro, ridipingendo, per così dire, Pompei?
AB: Pompei è interpretabile in questo senso come un territorio genetico, che si modifica ma continua a crescere, anche per la fertilità energetica dei terreni vulcanici, solo non più come una città regolata, o regolare, e quindi senza l’essere umano che prima l’abitava e interpretava come tale. Non sono le ceneri di Gramsci, no, scusa il lapsus, le ceneri di Pompei a essere interessanti, e se lo sono non sono ceneri inerti…
AV: È interessante questo tuo lapsus. Nel suo poemetto del 1954, Le ceneri di Gramsci, anche Pier Paolo Pasolini sembrava indicare un contro-tempo, simile a quello che indichi tu – in quel caso rispetto all’“ideale che illumina” (all’ideologia progressiva di Gramsci) – quando scrive: “attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza”.
AB: Devio, o divago, pensando a un altro artista, e anche lui poeta, Kurt Schwitters, autore di opere fatte di detriti, e per lo più andate in pezzi…
AV: …il Merzbau – definizione da lui stesso inventata per indicare i suoi interventi installativi e ambientali – a cui lavorò dal 1923 al 1944, e che era congiunto alla sua stessa abitazione. Andò distrutto durante la Seconda guerra mondiale (quasi un corrispettivo pompeiano moderno, in effetti). Mi sembra che il titolo del Merzbau fosse Cattedrale delle miserie erotiche…
AB: …hanno tentato di ricostruirlo. Ma, proprio per quello che stiamo dicendo, non ha molto senso, e comunque ciò che è risultato da quella ricostruzione era privo del dramma di qualcosa che fin dall’inizio era stato inteso come sporco, instabile, infinito e da non finirsi.
AV: Quello che Schwitters intendeva appunto con il termine Merzbau. Pompei sarebbe per te quindi, oltre che un dripping, un Merzbau?
AB: A suo modo. In una serie di opere del 2009 ho utilizzato dei frammenti di riproduzioni di opere di Pablo Picasso, come se fossero stati distrutti e poi riassemblati. La serie si intitola Picassincocci (edizioni Attese). Ho assecondato una tecnica del restauro archeologico, per cui gli archeologi prendono tra le mani un vaso di ceramica frantumato e lo ricompongono, accompagnando le linee di frattura dell’opera originale andata in pezzi. Sono oggetti che non sono oggetti, ma memorie…
AV: …in cui per altro recuperi anche il rapporto fra originale e copia che fu un tratto distintivo dell’arte antica, in cui dopo la conquista della Grecia da parte di Roma molte copie romane furono prodotte da originali greci, poi a loro volta andati perduti. Per cui oggi conosciamo solo le copie.
AB: Si potrebbero produrre anche dei falsi storici pompeiani – e anche qui c’è un’ampia letteratura sui criteri avventurosi, immaginifici, fantastici della ricostruzione degli oggetti – e reintrodurli infine proprio a Pompei.
AV: Qualcosa di simile a quanto accadde quando nel XIX secolo, per effetto della fascinazione suscitata dalla riscoperta di Ercolano e Pompei, si diffuse una vera e propria moda di falsi pompeiani.
AB: La “materia archeologica”, come l’avete definita nel vostro progetto per il MADRE, di per se stessa non conosce la differenza fra originale e copia, è di per sé espressiva e generativa, per cui è accogliente anche rispetto all’ipotesi di cambiarsi di segno: da materiale costruttivo a frammento di costruzioni distrutte, a materiale costruttivo rigenerato. Pompei è un sito dove si produce caos, un accidente vitale, ma dove non lo si subisce. Se tutto viene distrutto dal Vesuvio, il Vesuvio continua a creare qualcos’altro.
AV: Lo stesso vulcano (lo “sterminator Vesevo” di Giacomo Leopardi, da cui rinasce la ginestra gialla che poi ne infesta le falde) si è modificato con l’eruzione. La caldera che vediamo oggi, con il suo diametro di circa 4 km, è ciò che resta del precedente “edificio” vulcanico, corrispondente al Monte Somma: l’eruzione del 79 d.C. ne determinò il crollo del fianco meridionale, in corrispondenza del formarsi del cono vulcanico attuale, con il suo cratere.
AB: Una bomba atomica! Che si è innalzata nel cielo al di sopra di Pompei, ma che dovremmo interpretare evidentemente come un colossale cambiamento di segno.
AV: Quando hai iniziato a interessarti e a riferiti all’iconografia e all’immaginario pompeiani, in relazione alla tua ricerca sull’architettura e il design?
AB: La “metropoli latina” è per me un sistema ambientale enorme, stratificato, non lineare, sfuggente, inafferrabile, e persino incongruo. Come la pittura pompeiana: se la osservi essa in parte è un racconto di eventi storici o di miti, come scene all’interno di una narrazione teatrale; però poi c’è una componente enigmatica, misteriosa, nera, di questa pittura, composta di persone e cose che non esistono, o non si capisce chi siano e a che cosa servano, un prodotto esclusivamente mentale, virtuale, di cui non c’è una chiave d’interpretazione. Mi riferisco a quelle immagini della pittura pompeiana che diventano questi teoremi nel buio, che delineano un mondo molto poco definito, ordinato. Un elemento essenziale della “metropoli latina” è infatti la penombra… in cui non si vede niente! Ci si aggira all’interno di questa tenebra con le torce, le lanterne, le candele scoprendola come se la portassi per mano, andando a tentoni, ed è lì che incontri visioni da incubo.
AV: Sì. In effetti le tue opere in cui ti riferisci a Pompei sono ambigue e al contempo semplici, filologiche e devianti, come sospese: dei camouflage mimetici ed erratici, e per questo disturbanti. Forse perché, per te, Pompei, in quanto “metropoli latina”, è davvero una città contemporanea, qualcosa di revisibile e quindi di riprogettabile. Non una città soltanto reale, ma l’apparizione di una città ideale: una “metropoli latina”, appunto. Da umanista-surrealista, direi, ne hai raccolto la dimensione arcana riuscendo ancora a intravedere la vita di questa città che gli altri vedono come reperto archeologico. Come aveva già affermato un altro architetto e designer, Le Corbusier, visitando Pompei all’inizio del XX secolo, questa città non è costituita dalle sue rovine monumentali (archi di trionfo, acquedotti, fori, palestre, teatri e anfiteatri, templi) quanto piuttosto dall’intrico, intatto nei suoi elementi strutturali, dei suoi spazi e tempi più intimi e privati, in cui esterno e interno, edificio e decoro, sfera naturale e artificiale, dato di realtà e intuizione onirica e immaginifica, microsistemi dell’ambiente domestico e macrosistemi della dimensione metropolitana, annichilimento e rigenerazione, passato, presente e futuro, semplicemente coesistono. La condizione della penombra credo che sia una sensazione che spesso provano anche gli archeologi, per esempio quando si aggirano in sezioni delle aree di scavo non ancora portate in superfice, dove non sai che cosa troverai, o se troverai qualcosa; per esempio, quando si imbattono in una possibile scoperta, di fronte alla quale rimane tutto ancora da capire, decifrare, interpretare.
AB: Ed è lì che appare questo livello sotterraneo della cultura latina, questa cosa assolutamente inutile ma raffinatissima. Tutto ti sembra chiaro quando è coinvolto l’eros, o il teatro, tutto appare esplicito, una volta portato in superficie. Ma quando incontri queste pareti nere, questi vasi neri, che emergono dalla penombra in cui non si vede nulla, nulla è chiaro. Ecco perché puoi parlare di rigenerazione: sembrano oggetti abbandonati e invece sono i più attivi, i più seduttivi, e anche i più spaventosi: dei cortocircuiti. Pompei contiene in sé, in quanto “metropoli latina”, tutti questi livelli di conoscenza, e di riscoperta non di ciò che è finito ma di ciò che ancora è in vita. Non solo la vita del passato, ma anche e soprattutto la vita del presente, e del futuro, perché in quelle cose nere cogli un’estrema vitalità, quasi il mistero della vita, il suo rimpastarsi, riformularsi, rigenerarsi a partire da se stessa, lo spiegarsi di un racconto avvolgente, che ti compenetra. Ecco, Pompei per me non è affatto qualcosa di morto.
AV: Forse è proprio in quello che stiamo dicendo che risiede la ragione perturbante dell’attrazione che un sito come Pompei ha esercitato durante il Grand Tour, e che ancora esercita pur in un contesto di turismo globalizzato e comunicazione digitale…
AB: …perché Pompei vive tra le tenebre, nella penombra, ed è da questa dimensione che continua a rigenerarsi. Una dimensione quindi molto difficile da governare, ordinare, regolare. Del resto, pensa alle pitture pompeiane: di per sé sono inspiegabili… Non si sa chi le ha dipinte, se era un artista, o un designer, o un artigiano, non si sa nemmeno perché le ha dipinte… Certo, c’è anche l’oste che mesce il vino, o il cane che fa la guardia (Cave Canem), ma se si pensa che quelle immagini spieghino Pompei si commette un errore, perché Pompei è inspiegabile, è un’altra cosa, ed è tutta da capire.
AV: La “metropoli latina” può prescindere per te da Pompei, ovvero non si limita a questo solo riferimento. Come ne hai maturato la prima intuizione?
AB: Una volta, all’Università di Milano, dissi agli studenti di lavorare sul tema della penombra. Ciascuno doveva inventare una piccola torcia, una piccola lanterna, una piccola candela, qualcosa che permettesse di attraversare uno spazio e un tempo bui… vedendoli appena. Da qui si è originata l’idea di indagare una realtà più ampia, che chiamai “metropoli latina”, qualcosa che non corrisponde alle gerarchie dell’archeologia ma a un dubbio esistenziale, e progettuale, a qualcosa che non mi era chiaro, e che non mi è chiaro. Non mi è chiaro per niente, anzi continua a farmi paura. Non è che una cosa del genere uno la spiega. Infatti, per me, il limite dell’archeologia potrebbe consistere nel fatto che essa, come disciplina, ritenga di dover spiegare – analizzare, dimostrare, illustrare, misurare – tutto ciò con cui viene a contatto o di cui viene a conoscenza, mentre in realtà anche nell’archeologia ciò che è interessante è che ci sono molte cose che non si capiscono, e non si giustificano. E che richiedono molta intuizione e invenzione. Non mi riferisco solo a Pompei, ma in generale a questa cultura “latina” che per me traduce una cultura in fondo di pazzi… drogati dal piombo, dalle spezie, dall’acqua densa di sostanze liquide per cui gli girava la testa… Forse l’unico che ha provato a mettere insieme questi pazzi, quali per me erano gli antichi latini, facendoli recitare insieme davanti a una macchina da presa, è stato Federico Fellini.
AV: Ti riferisci al suo film del 1969 Fellini-Satyricon?
AB: Sì, se riguardi quel film vedi queste figure sconvolte, che sembrano…
AV: …surreali, mostruose, anticlassiche?
AB: Il classicismo è stato inventato dal Rinascimento. Gli antichi latini erano diversi, dei pazzi furiosi, davvero, e anche pericolosi. Dei vivi che… entravano e uscivano dalla morte… Il loro è un mondo che vorresti esplorare, ma non ci riesci, e che forse per questo non andrebbe neanche capito. Intanto non lo puoi comunque capire.
AV: Quindi la “metropoli latina”, e Pompei, sono dei progetti incomprensibili?
AB: Ridurre Pompei a una città antica, la cui popolazione si è estinta e la cui cultura ha lasciato tracce più o meno solide e comprensibili sarebbe una riduzione, appunto. Poiché Pompei esprime un’altra vitalità, effettiva e narrativa. Gli archeologi del resto continuano a scoprire figure – esseri umani, animali, vegetali, minerali – che sono degli enigmi, impastate di terra, di cibi (immaginabili ma immangiabili), di rituali erotici e religiosi, di influssi di pensiero, che ci perseguitano come se fossero appena nati, sorti, dal terreno. Pompei, come dicevo, è tutta da capire, senza pretendere di poterlo fare o di riuscire a farlo.
AV: Perché prima affermavi che Pompei ti fa paura?
AB: Credo che anche molti degli abitanti di Pompei siano morti di paura, al buio… Tutto gli crollava addosso, dal cielo… A quel punto uno preferisce morire, “esplodere”. Ma, in questa morte, in questa esplosione che ti fonde con tutto il resto, rimane in sospeso appunto la grande vitalità di tutto quello che sta accadendo. Pompei accompagna la morte ma, spaventosamente, la accompagna verso la vita, e accorciando pure i tempi! Ovunque, a Pompei, non c’è la riduzione in cenere: anche la cenere a Pompei ha una sua ultima, estrema vitalità. L’eruzione del Vesuvio provocò un boato costituito da una totale disarmonia musicale anticipando i suoni sperimentali di John Cage.
AV: Nei calchi pompeiani dei corpi umani, ma anche animali, quello di cui rimane traccia sono in effetti i segni della tensione muscolare (dovuta a uno shock termico) espressa negli ultimi momenti di vita, in cui l’ultima traccia che rimane di sé è una traccia di energia, attiva fino allo spasmo. Un palinsesto di memorie energetiche. Avvolte in una cenere peraltro spuria, perché mescolanza di ogni specie vivente, organica e inorganica.
AB: Una cenere, quindi, estremamente sapiente. Se ci si pensa quello che veramente permane della “metropoli latina” è, oltre a questa cenere rigogliosa, la voce dei suoi poeti, che continuano a parlare in questa lingua misteriosa, che quando la senti pronunciare ti riempie di tremore, una lingua terribile perché ancora viva, anche solo se la leggi e la pronunci di nuovo nella tua mente. A che cosa servono, del resto, i poeti e la poesia? Non servono a niente, nessuno li paga, nessuno la compra. Però, quando crollano, che cosa rimane di queste città, di questi imperi, della loro società, della loro politica, della loro economia, della loro arte? Cenere, appunto. E, insieme, se siamo fortunati, la poesia: quello che è rimasto in piedi in molti casi sono solo le poesie. La cosa più inutile, ma che imprevedibilmente non si abbatte, non crolla, non va giù… E perché? Perché non ha una consistenza fisica, una formula chimica che può deteriorarsi, dissolversi nel tempo, come gli edifici e le loro decorazioni, le ossa e la carne, ma può propagarsi, essere trasmessa fra i sopravvissuti, di bocca in bocca. Un racconto che continua anche dopo l’eruzione. E per questo resiste di più di altre cose. Anzi, per questo è l’unica cosa che resiste, come tutto ciò che appartiene al mondo dell’inutile…
AV: …inutile e, come dicevi prima, imperscrutabile.
AB: Un dripping. Che è qualcosa di molto simile al materiale archeologico sversato nei depositi di Pompei che mi hai mostrato parlandomi di questo progetto e chiedendomi di collaborarvi: una polvere di vita, che esprime un’energia incontrollabile, ma senza spiegare niente. Anche il dripping che cosa spiega? Non spiega niente… e non ha senso, se non che è un segno di vita.
AV: Vorrei in effetti ritornare alla tua definizione di Pompei come dripping. Prima di iniziare la nostra conversazione mi hai mostrato una cartellina con alcuni tuoi disegni giovanili che mettevi in relazione con questa tua possibile definizione di Pompei come un dripping…
AB: Sono disegni che ho realizzato fra il 1958 e il 1962… [Ride]… Ma se uno comincia a spiegare…
AV: …va male!
AB: Certo che va male.
AV: Divaghiamo allora, se vuoi.
AB: Ora ti sembrerà che divago, ma non è del tutto così. Io sono nato nel 1938, subito prima della guerra, e quando avevo pochissimi giorni… sono morto. Ero l’ultimo di sette fratelli, e tale Don Gonnelli mi portò all’ospedalino Meyer di Firenze per il battesimo: faceva un freddo incredibile – per come era allora il mondo faceva sempre un freddo incredibile – e mi ammalai, prendendo una gravissima polmonite. Però c’era una vecchissima governante a casa nostra, che si chiamava Ada, che arrivò in camera mia mentre mi portavano l’estrema unzione e mentre tutta la mia famiglia mi piangeva ormai come morto. Aveva in mano un impacco fatto di semi di lino… incandescente… Le dissero: “No, Ada, il bambino sta morendo”; al che lei rispose: “Visto che ce l’ho, lasciatemi metterglielo”. Quest’impacco riattivò qualcosa, un minimo di movimento. E tutti lì a esclamare, a quel punto, “Ma… è ancora vivo!”. Da lì cominciò per me una progressiva risalita, dalla morte di nuovo alla vita, insomma, una resurrezione. Però rimasi un bambino molto delicato di salute, tanto che quando arrivai all’età della prima elementare fu deciso di farmi studiare a casa, con una maestra che mi insegnasse a scrivere e a far di conto. Feci quindi tutte le elementari in casa, e quando finalmente uscii di casa… non sapevo studiare, anzi non sapevo proprio fare niente. Poi iniziai ad avere anche paura del maestro, degli altri bambini, per cui incominciarono di nuovo una serie di disturbi di salute e di comportamento, delle crisi ontologiche, sai, di quelle in cui ti sembra di stare come dietro a un cristallo. L’unica cosa che cominciai a fare da solo, in maniera istintiva (allora non c’erano gli psicologi infantili), era disegnare. Disegnavo tutto il giorno, sempre meglio, mi concentravo, riempiendo interi quaderni, mentre a scuola intanto continuavo ad andare malissimo (non ho mai imparato a studiare), e ho dovuto ripetere infatti gli anni al liceo, nonostante le ripetizioni… un disastro: se dovessi tornare in classe, con i compiti, le interrogazioni, credo che precipiterei di nuovo nell’abisso. Ma alla fine passai, o mi lasciarono passare. E siccome non sapevo ancora niente, ma sapevo disegnare, e non facevo altro che disegnare, mi iscrissi alla facoltà di Architettura, a Firenze. Dove improvvisamente tutto cambiò: fui il primo a laurearmi, con ottimi voti e portai a termine altre imprese leggendarie, come sostenere quattro esami in un giorno con quattro 30 e lode. Sempre continuando a disegnare, fondammo il gruppo che definimmo “radical”, gli Archizoom (Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello, Massimo Morozzi, Dario e Lucia Bartolini). Un gruppo compatto, ma che lavorava in modo alternativo, suscitando un immediato interesse internazionale. Insomma, tutta una storia diversa. In cui proprio questi disegni primordiali, che stiamo ora guardando insieme, sono le tracce di una vicenda banale, che però non lo è del tutto, dato che contiene prima una resurrezione e poi una metamorfosi…
AV: Entrambe esperienze ed espressioni a loro modo pompeiane, almeno nel discorso che stiamo facendo.
AB: Sì, esattamente. Questo impegno a disegnare, senza saper fare quasi nient’altro, mi ha salvato la vita, mi ha rigenerato. Perché non avevo altro che questo, e riempivo quei fogli in maniera spasmodica.
AV: Senza questi disegni – che ho l’impressione siano il tuo primo dripping, il tuo primo Merzbau – non ci sarebbe stato quindi Andrea Branzi…
AB: Probabilmente.
AV: Il tuo racconto mi aiuta a capire, in effetti, come hai interpretato la fervida precarietà di Pompei, la sua fragilità intrinseca alla sua resilienza, la sua matrice di esperienza ed espressione poetica o, per usare una metafora architettonica, la connessione fra i suoi elementi portanti e quelli accidentali…
AB: Per me, in fondo, Pompei, e lo dico anche con ironia, non è affatto morta ma coincide, anzi, con una resurrezione generale e con una metamorfosi tutt’altro che metaforica, ma incarnata. Uno stato d’animo e delle materie in cui ciò che è accaduto si pone in continuità con ciò che sta accadendo e ciò che accadrà. Ti racconto un ultimo aneddoto, a questo proposito. Mia moglie Nicoletta e mia figlia Lorenza sono state qualche giorno fa a Pompei, per un sopralluogo connesso alla mostra che sto per inaugurare alla Domus del triclinio estivo, nell’ambito del Festival del Paesaggio e di Pompeii Commitment. Materie archeologiche. Mentre, in mezzo a una vigna, facevano le prove audio di un’opera sonora che trasmette rumori di galline che chiocciano, un somaro che raglia, fabbri che martellano… i turisti che passavano con la guida seguendo i loro percorsi di visita predeterminati ascoltando tutta la storia che in genere gli raccontano – questo serviva a quello, quello serviva a quest’altro, lui chi era, che cosa ha fatto… – immediatamente si sono fermati, come presi di sorpresa da qualcosa che improvvisamente gli era famigliare. Sorpresi che Pompei non fosse una meraviglia del passato, ma una città dove si sente ancora la vita quotidiana proseguire.
AV: Come nelle strutture che hai progettato per la tua mostra personale del 2019 La Metropoli Latina, ad Assab One a Milano, in cui imitavi le pareti delle domus pompeiane appoggiandovi però oggetti contemporanei banali, di poco valore, come quelli che arredano le nostre case e che animano la nostra vita domestica, anche se del tutto analoghi per funzione e affezione a quelli che avresti trovato in una domus antica come la Domus del triclinio estivo presso cui si terrà la tua mostra?
AB: Oggetti pop, quelli della grande distribuzione e del consumo di massa. Una sovrapposizione, una contaminazione, una profanazione dello spazio e del tempo delle nostre abitudini di ieri e di oggi, per non rassegnarsi a che ci sia un inizio e una fine. Pompei è in effetti un sito e uno stato di profanazione, continua e pervasiva: fa spavento perché se ascolti, se guardi, la vita è vissuta, libera, senza soluzione di continuità. Ascoltare e vedere in questo modo Pompei per me è una liberazione…
AV: A proposito di liberarsi di qualcosa, che cosa si dovrebbe aggiungere e che cosa non si dovrebbe aggiungere per te in un ecosistema culturale e naturale delicatissimo come Pompei? Se dovessi disegnare o progettare qualcosa a Pompei che cosa proporresti?
AB: Qualcosa senza senso. Guardando ancora quei disegni, che sono molto simili a quelli che faccio ora: essi rimangono ingiustificati. Io cambio continuamente argomento, tecniche, materiali, mi interesso a cose diverse, e faccio per lo più cose inutili, inventandone altre tutti i giorni. Devio, divago, come dicevamo prima. Un segno vitale, che comunque è il mio modo di lavorare, l’unico che conosco. La riprova di quanto non c’entri nulla l’architettura, il design, la professione, quelle migliaia di domande su da dove nascono i miei progetti. Nascono tutti da altro. Da una necessità in gran parte inspiegabile. Cioè, se Alessi ha bisogno di un macinapepe questo è del tutto ininfluente. Lo faccio anche il macinapepe, perché in sé è un lavoro assolutamente…
Nicoletta Morozzi: …illuminante…
AB: …inutile…
AV: Bisognerebbe pubblicare questa vostra risposta completamente opposta, Nicoletta e Andrea: tu Nicoletta che dici “illuminante”, e tu Andrea che dici “inutile”! [Ridiamo].
NM: Illuminante perché inutile, inutile perché illuminante?
AB: Eh sì, forse… un po’ come queste fotografie di formaggi…
AV: Le stavo guardando poco fa, durante la nostra conversazione. Anche loro sono inutili e illuminanti?
AB: A me sembrano più che altro belle. No? Mah! Nascono comunque da uno scherzo, ai tempi dell’università quando, ascoltando alcuni amici pittori che commentavano le opere alle mostre, sentii che per loro certe opere avevano un “sapore”, mentre altre invece no. Usavano termini gastronomici che mi divertirono allora, e mi divertono ancora, più di altri termini forse criticamente più propri e pertinenti, ma certo meno sinestetici.
AV: Sempre per divagare, immagino. A proposito, è quasi l’ora di cena. Ci prendiamo un bicchiere di vino con un po’ di formaggio? Intanto ci rivedremo presto a Pompei, Andrea, Nicoletta e Lorenza, e potremo continuare la nostra conversazione…
Pompei come luogo dei morti ma anche dei viventi, dei poeti, del mare e del vulcano, della politica e dell’eterno commercio…
Lontano dalla Roma dei monumenti, Pompei ci lascia cicatrici silenziose, profonde come le strade di pietra o leggere come tratturi…
Esposte al sole accecante e alla fresca penombra delle case, dove gli Dei sono confusi con gli schiavi e l’arte povera con l’arte ricca, i capolavori e le galline ruspanti…
Questa è la Pompei che più mi fa paura, perché troppo ci somiglia…
Nelle ville la luce opaca delle stanze penetra a fatica attraverso le piccole lastre di alabastro, illuminate da poche lucerne che ci permettono di scoprire i miti misteriosi e i volti degli antichi latini…
Essi infatti parlano in latino e recitano le poesie di Catullo
Andrea Branzi