Pompeii Commitment
Abbas Akhavan, con Ellen Greig. curtain call, variations on a folly
Commitments 44 21•04•2022curtain call, variations on a folly
2021
Veduta della mostra curtain call, variations on a folly, Chisenhale Gallery, Londra, 2021
L’intervista che segue è stata originariamente pubblicata nel 2021 da Chisenhale Gallery Londra in occasione di curtain call, variations on a folly, mostra personale di Abbas Akhavan. Viene qui ri-pubblicata con l’intento di introdurre la pratica artistica di Abbas Akhavan ed i vari spunti di riflessione che questa solleva, particolarmente rilevanti per la ricerca portata avanti da Pompeii Commitment. Materie archeologiche. La fenomenologia fisica dell’installazione di Akhavan curtain call, variations on a folly, i cui materiali primari sono terra cruda e verde “chroma key”, incapsula il potenziale generativo e rigenerativo della materia archeologica, così come la soglia temporale che consente di interagire con il cortocircuito di spazio e tempo di un sito che, nel caso di Pompei, è tanto reale quanto immaginario. La nozione di materia archeologica viene approciata come un’episteme attiva, sia digitale che fisica, che recupera il passato pur essendo radicata nel presente e riguardante il futuro. Inoltre, l’interesse ricorrente di Akhavan per le rovine mette in evidenza il loro marcato potere simbolico all’interno dell’immaginario collettivo, suscitando riflessioni su ricostruzione simbolica, collezioni museali, circolazione di manufatti e il ruolo che questi ricoprono nella ri-mappatura della storia.
Chisenhale intervista: Abbas Akhavan
Ellen Greig: La tua nuova commissione, intitolata “curtain call, variations on a folly”, è costituita da un grande palcoscenico con una parete infinita, dipinta di verde “chroma key” (colore utilizzato per i fondali fotografici e video), e un’installazione scultorea realizzata con in “cob” o terra cruda, un antico materiale edilizio fatto di terriccio, acqua e paglia. Da cosa nasce il tuo interesse per queste due tecniche di lavoro?
Abbas Akhavan: Anche se espongo le mie opere in gallerie convenzionali – penso, ad esempio, ad alcuni miei lavori precedenti come Study for a Monument (2013) e Variations on Ghost (2017) – spesso mi riesce difficile digerire la presunzione del cubo bianco. Dal momento che gran parte del mio lavoro è legato alla specificità del luogo o è una risposta ad esso, sono alla ricerca di modalità per ridefinire lo spazio della galleria. Quindi, nel caso di opere più recenti come cast for a folly (2019), spill (2021) e questa mostra, tento di creare spazi paralleli all’interno della galleria, come un palco dentro un palco.
Voglio chiarire che utilizzo il verde chroma key solo come dispositivo analogico. Non lo utilizzo per creare effetti visivi digitali. Il fondale verde offre uno spazio immaginario per “farci uscire” dalla galleria e definire un ambiente che rimuove o separa gli oggetti dal loro contesto fisico. Questa messa in scena mira a rendere le sculture più consapevoli di se stesse e del loro contesto. È come un sipario. Crea uno spazio illusorio, un fondale, dove accettiamo che questi oggetti, come attori, si esibiscano su una scena. Tuttavia, a differenza di un fondale teatrale, lo schermo verde offre uno spazio indefinito; siamo ovunque, eccetto dove siamo realmente. Possiamo proiettare loro e noi stessi in qualsiasi luogo, ad esempio in Iraq, in Siria, nel cortile di qualcuno o in qualsiasi sfondo adatto alle sculture. Il punto di riferimento è lasciato libero, come una quarta parete, un potenziale.
Quanto alla terra cruda, il cob, già da qualche tempo mi interesso a questo antico materiale. Sebbene la mia biografia non influisca molto sul mio lavoro, conservo molti ricordi sulla terra cruda della mia infanzia. I miei nonni vivevano in un paesino che era costruito quasi interamente in terra cruda. Ricordo che una volta, correndo, andai a finire contro la parete di una fattoria. Imparai subito come la ruvida terra cruda possa graffiare la pelle. Quindi, il mio ricordo del cob è più legato alla sensazione tattile del materiale che al luogo in cui lo vidi per la prima volta. Cosa ancora più importante, la terra cruda possiede delle qualità eccezionali dal grande potenziale; per questo motivo la si utilizza molto come materiale edile sostenibile. L’argilla, un componente essenziale del cob, è spesso ricca di sostanze nutrienti e minerali come calcio, potassio e magnesio. Mentre si costruisce, questi minerali possono essere assorbiti attraverso la pelle. Nonostante costi poco, è un materiale ricco in sé, con un grande valore strutturale e visivo. È estremamente malleabile, si secca con rapidità, non diminuisce di volume, è atossico e biodegradabile. Ha un aspetto evocativo, riesce a connotare la forma con poche informazioni e poco sforzo; una qualità che apprezzo nella scultura. Non voglio nasconderla. È solo terra cruda. Vecchia e sporca.
EG: Questa nuova commissione si fonda su altre opere precedenti che si avvalgono anch’esse di due processi materici opposti per riprodurre architetture e spazi. Cosa ti ha spinto a unire questi due materiali?
AA: Penso che la nostra esposizione sia strettamente legata alla mostra cast for a folly (2019), organizzata presso il California College of the Arts (CCA) Wattis Institute, a cura di Kim Nguyen. Al Wattis ho utilizzato, tra gli altri materiali, lo schermo verde e il cob per ricreare l’atrio del museo nazionale dell’Iraq dopo il saccheggio avvenuto nel 2003. L’installazione, interamente basata su uno scatto fotografico di Corine Wegener, è stata concepita come una scena teatrale. Il mio scopo era quello di rimanere non obbediente ma piuttosto fedele all’immagine; un metodo che si ritrova anche nel mio modo di sviluppare la commissione alla Chisenhale.
Diciamo che, in base alle linee prospettiche e alla qualità dell’immagine, alcune parti dell’installazione al Wattis avevano più informazioni rispetto alla fotografia di partenza mentre altre parti ne avevano meno. Al centro dell’ingresso del museo c’era un’enorme scultura in pietra raffigurante un leone, troppo pesante da spostare e troppo ingombrante da fare a pezzi. Quindi, nonostante i danni arrecati al museo, il leone, perfettamente integro, occupa il centro della scena nell’immagine. Ho deciso di replicare il grande leone in scala utilizzando la terra cruda. Ho voluto invecchiare la figura, sostituendo la pietra scolpita con un materiale più antico, qualcosa di equivalente in termini di ricchezza e peso, tuttavia più povero e provvisorio. Nella fotografia, dietro al leone, c’è una porta con una tenda di velluto verde scuro. Ho letto che da questa porta sono entrati i saccheggiatori. Osservavo questa immagine ormai da molti anni, aspettando il momento giusto per creare l’installazione. Sebbene molti dei materiali siano stati prodotti in loco, ho sempre saputo che la tenda dietro il leone sarebbe diventata uno schermo verde suggerendo una sorta di portale, una quarta parete, un elemento di rottura. Una volta completato il leone e dipinto di verde la porta dietro la scultura, la terra cruda combinata con il chroma key ha acquisito valore e una qualità quasi vibrante.
La terra cruda è composta da radici vegetali che legano l’argilla a un aggregato cedevole di rocce, ghiaia e sabbia. Si può quindi immaginare che, dopo essere stata estratta dal terreno, i suoi componenti possano essere facilmente riutilizzati come materiale da costruzione, creando strutture verticali, pareti, piattaforme e così via. Lo schermo verde è un sistema molto diffuso per comporre immagini o flussi video sulla base di sfumature cromatiche. Si tratta di una tecnica utilizzata nei notiziari e nel settore cinematografico per rimuovere e sostituire gli sfondi dietro ai soggetti. Questi metodi che tolgono o aggiungono informazioni per creare forme attraverso la stratificazione e la compressione, sono comuni a entrambi i materiali. La loro prossimità reciproca ricorda una coppia di parentesi collocate agli estremi opposti della gamma dei materiali.
EG: L’installazione in cob di questa esposizione ha come influenza primaria il colonnato che in passato circondava l’Arco di Trionfo, un monumento simbolo della Siria costruito 2000 anni fa nell’antica città di Palmira. Si crede che nel 2015 l’arco sia stato distrutto da militanti dello Stato Islamico. Da cosa nasce il tuo interesse per questo sito e in particolare per il colonnato?
AA: Penso che lavorare sulle idee non sia una strategia lineare quanto piuttosto qualcosa di simile a una pila di compost: gli elementi si accumulano e si sgretolano, si legano tra loro e poi, passando il setaccio, si trovano germinazioni inattese. Ciò che mi interessa maggiormente è esplorare la scultura e imparare dai materiali. È da diverso tempo che, esplorando la scultura, sono alla ricerca di “capricci”.
I capricci sono spesso sculture architettoniche ornamentali inserite nei giardini. L’Inghilterra ne è piena! Considero i capricci strutture dotate di coscienza. Ad esempio, un capriccio in un paesaggio potrebbe avere l’aspetto di una casa, anche se sa di non esserlo. Partendo dal mio interesse per i capricci, ho iniziato a osservare le rovine e poi le colonne; si tratta di una specie di traiettoria inevitabile.
Dalle colonne ai colonnati e agli archi quando infine, ho visto questa immagine dell’allora sindaco di Londra, Boris Johnson, che nel 2016 ha inaugurato una replica dell’arco di Palmira a Trafalgar Square.
EG: Sì, ricordo quando mi hai inviato l’immagine della replica dell’Arco di Trionfo inaugurato da Johnson. La copia era stata costruita e finanziata dell’Institute of Digital Archaeology (IDA) — che ha sede nel Regno Unito e negli USA — utilizzando la tecnologia delle immagini in 3D. Dopo essere stata presentata a Londra, la replica dell’Arco è andato in Svizzera, negli Stati Uniti e a Dubai. In un certo modo, la replica dell’IDA fa da contraltare alla tua opera nello spazio espositivo: l’Arco non è presente nella galleria ma ne abbiamo riprodotto il contesto.
AA: Esatto. L’installazione che abbiamo realizzato qui alla Chisenhale, come hai appena detto, evoca l’immagine del colonnato ancora esistente che portava all’Arco oggi distrutto. Sebbene mi interessino le rovine, l’obiettivo non è la nostalgia per il Museo dell’Iraq o l’Arco di Palmira, bensì le modalità con cui questi siti diventano immagini inquietanti e cariche di significato nell’immaginario collettivo. In quale modo questi manufatti circolano grazie ad altre economie e narrazioni che riscrivono la storia, contribuiscono alla creazione delle nazioni e al collezionismo museale?
Questa esposizione riguarda il trasporto dell’Arco dalla Siria in un sito che ricorda il passato imperiale della nazione. Quando si cerca su Internet l’Arco monumentale di Palmira, appaiono le immagini della copia in marmo a Trafalgar Square.
Guardando per la prima volta la foto in cui Johnson e l’IDA inauguravano la replica, ho pensato che era davvero strano che l’Arco venisse decontestualizzato. Grazie alla tecnologia digitale, esso è stato teletrasportato fuori dalla Siria e adesso, nell’immaginario delle persone, fa parte di Londra. Per questo motivo ho ritenuto necessario ricreare anche il suo contesto.
Voglio sottolineare che quest’opera nasce dal mio interesse per i materiali e la scultura. Il chroma key e la terra cruda hanno il loro peso e la loro storia. Se utilizzati per creare un colonnato come un set cinematografico, come oggetti ritrovati, essi finiscono per acquisire delle connotazioni che vanno oltre i meri materiali, allineandosi e rimandando a problemi fuori dalla galleria, che alludono a eventi socio-politici recenti e, in questo caso, portando antiche rovine fuori dallo spazio e dal tempo.
Essendo stato testimone oculare della guerra e avendo visto in seguito i filmati dell’invasione dell’Iraq nel 2003 e le più recenti devastazioni in Siria, è inevitabile chiedersi: chi eredita le rovine di guerra? Sebbene non sia legata a un sito specifico, come l’esposizione al Wattis Institute negli Stati Uniti, questa mostra alla Chisenhale è stata concepita per essere esposta in Inghilterra. Trasformare l’atrio del Wattis in un punto di ingresso al Museo dell’Iraq è un modo per restituire le macerie dell’Iraq agli Stati Uniti. Qui, a Londra, la situazione è ovviamente diversa. Un set cinematografico per un colonnato che in Siria conduce a delle macerie è forse un modo per esprimere l’assurdità insita nel voler far emergere il marmo da delle antiche rovine. Cosa significa realizzare trofei per “noi, i civilizzati” in contrapposizione a “loro, i barbari”? È necessario parlare delle forme di instabilità che hanno dato origine a tale devastazione. Quali sono le responsabilità dei musei verso la storia, il patrimonio, i manufatti e, aspetto ancor più importante, verso i civili che hanno realizzato e arricchito, da un punto di vista culturale, questi siti? Ad esempio, i rifugiati siriani sono emarginati dal resto del mondo, mentre i loro manufatti ottengono asilo, sia gli originali che le loro riproduzioni.
EG: Il tuo lavoro affronta l’impossibilità di creare immediatamente una riproduzione fedele. Potresti approfondire il tuo interesse per l’atto di replicare oggetti o siti?
AA: Quando ho saputo che, per motivi di sicurezza, molti musei espongono repliche delle loro collezioni e che gli oggetti “reali” non sempre sono accessibili al pubblico, mi sono sentito autorizzato a creare dei “segnaposto”. Sono dei segnaposto perché queste opere non rivendicano alcuna autenticità. Rimandano a un’altra opera. Sono delle controfigure, dei sottostudi. Quindi l’obiettivo non è copiare. L’opera deve avere invece una relazione diversa con l’originale, che ciò avvenga attraverso la sua materialità, la sua temporalità, il suo contesto.
Quando vediamo bravi attori che interpretano un personaggio, sappiamo che stanno recitando e tuttavia non percepiamo come falso il loro comportamento. Attraverso l’atto di “entrare nei panni di qualcun altro”, questo accordo tra lo spettatore e il palcoscenico, sospendiamo il nostro giudizio arrivando perfino a condividere la gioia o la sofferenza del personaggio. Storicamente molti artisti hanno ridefinito in modo elegante e rigoroso queste relazioni. Penso alle opere di artisti come Sherrie Levine, Michael Rakowitz e Rachel Whiteread, solo per citarne alcuni.
Tornando al mio lavoro, ho cercato di valorizzare queste qualità attraverso il sito, di metterle in scena in spazi autocoscienti o di utilizzare materiali effimeri. Le opere in terra cruda sono realizzate con materiali biodegradabili elementari che diventano compost una volta conclusa l’esposizione. Terminata la mostra, le circa sette tonnellate di terreno saranno donate a giardinieri locali, costruttori che utilizzano la terra cruda o semplicemente saranno convertite in compost.
EG: Hai anche prodotto una traccia audio che viene diffusa in tutta la galleria.
AA: Il brano audio svolge la funzione di un sipario sonoro, rispecchiando la parete infinita dietro alle colonne. Lavorando su una combinazione tra frequenze molto alte, suoni di droni bassi e rumore rosa, un altro colore suggerito nello spazio, complementare al verde, l’audio diventa un ronzio continuo che sembra provenire dall’edificio o dal nostro orecchio. Le frequenze seguono il pubblico in tutto lo spazio, creando momenti di intensità sonora e, a volte, di silenzio totale.
EG: La traccia audio evidenzia anche il modo in cui l’installazione gioca con la percezione dello spazio. Puoi parlarci del posizionamento delle colonne e della loro scala?
AA: Le colonne sul palcoscenico formano una prospettiva con punto di vista unico. Camminando attorno all’installazione, appare evidente che la composizione è frutto di una prospettiva forzata, il diametro delle colonne si riduce e le sculture appaiono meno ornamentali. Credo che l’economia della loro struttura diventi più interessante mano a mano che si perdono particolari decorativi e informazioni riguardanti i materiali di cui sono fatte. Si tratta anche di una convenzione cinematografica: ciò che si trova vicino alla telecamera è la star dello show e ciò che resta sullo sfondo, sono comparse.
EG: Abbiamo dipinto un testo sul tetto della Chisenhale Gallery e degli Chisenhale Studios. Visibile solo nella documentazione o dalle finestre e dai tetti degli edifici vicini più alti, il testo dipinto dice: “CAT’S PAW” (“zampa di gatto”). Perché “zampa di gatto”?
AA: La scritta è sospesa sulla galleria come un baldacchino. Come un tetto lontano per il palcoscenico. Non è fisicamente accessibile al pubblico. È visibile a uccelli, aeroplani, droni o nella documentazione online. Esso si basa su numerosi lavori che ho realizzato con scritte dipinte sui tetti. Mi piace anche lavorare con le favole sugli animali. L’espressione, “zampa di gatto”, prende spunto da una favola intitolata La scimmia e il gatto di Jean de La Fontaine. Si tratta della storia di un gatto e una scimmia all’interno di un ambiente domestico. Il gatto dorme e la scimmia vuole mangiare le castagne arrostite che si trovano nel caminetto. Quindi, la scimmia usa la zampa del gatto addormentato per prendere tutte le castagne. Quando viene catturato dai proprietari, questi danno la colpa al gatto, che ha le zampe bruciate, di aver mangiate tutte le castagne. Quindi, il testo parla di qualcuno che usa qualcuno contro la sua volontà. Il dizionario definisce questa espressione come: “una persona che viene usata da un’altra ai propri fini”. Un altro significato per “zampa di gatto” è: “un’aria leggera che increspa la superficie calma dell’acqua a chiazze irregolari”. Si tratta di una felice coincidenza poiché l’ampio tetto irregolare della galleria tende ad accumulare, dopo un temporale, grandi pozzanghere d’acqua che ristagnano.
L’immagine del dipinto sul tetto sarà disponibile solo sul sito web. Non è mai mostrato fisicamente all’interno della galleria. Mi piace l’idea che le persone entrino in galleria e immaginino qualcosa di urgente o poetico sopra di loro, in grado di inviare messaggi che siano più lontani di loro.
Intervista a cura di Ellen Greig, Senior Curator, Chisenhale Gallery, venerdì, 13 agosto 2021